21 Agosto 2020

La regola d’oro della resistenza

Svetlana Panič

Filologa, è stata ricercatrice presso l’Istituto Solženicyn di Mosca fino al 2017, ora è traduttrice e ricercatrice indipendente.

E così hanno dato tre anni e mezzo a un innocente. Tre anni e mezzo anziché i quindici chiesti dalla pubblica accusa.

Quando sulla piazza di fronte al tribunale di Petrozavodsk si è sparsa la voce della condanna, la ragione si rifiutava testardamente di crederci. Accade qualcosa di simile ogni volta che, il Giovedì Santo, si legge il Vangelo del processo di fronte a Pilato, e anche se conosci il testo a memoria, ti fermi per un istante: «Magari questa volta non gridano, magari questa volta lo lasciano andare…». Poi, quando è uscito l’avvocato, che durante il processo ha fatto e sta continuando a fare tutto il possibile, e ha confermato che sì, gli avevano dato tre anni e mezzo, il respiro si è bloccato per l’orrore e il disgusto, veniva voglia di piangere forte, di gridare parolacce. «Ti rinnegano e ti danno del rinnegato, danno del bugiardo anche a un lattante. E se non ti bruciano nei forni come ad Auschwitz, devi anche dirgli grazie…», come scriveva il cantautore del dissenso Julij Kim.

Ma al tempo stesso, in questo momento di disperazione si è riconfermata la regola d’oro della resistenza, collaudata più volte in questi anni: in tempi come questi è giusto stare insieme. Penso che solo con il passare del tempo capiremo quanto questo «stare insieme» sia importante e salvifico non solo come solidarietà di moltissime persone, molto diverse fra loro, con chi è condannato senza colpa, ma anche come forma di resistenza al «grande male» nel cui ambito tre anni e mezzo di carcere a un innocente sono il minore dei mali possibili.

È chiaro come il sole che questa assurda condanna non dice nulla di Jurij Dmitriev se non che è innocente, ma dice molto sulla giustizia e sulla situazione in cui viene amministrata. Certo, rispetto all’articolo 132 che di solito «vale» almeno dodici anni, il giudice, applicando l’articolo 64 in cui si parla di «circostanze eccezionali», gli ha dato tre anni e mezzo. Come ha ripetuto più volte lo storico del GULag Anatolij Razumov, è comunque una vittoria di cui si può senz’altro gioire: il senso di questa formulazione giuridica, la cui configurazione ricorda le corna fatte con la mano in tasca, è evidente. Tuttavia, come al solito ad essere sotto attacco è il buon nome di Jurij Dmitriev, che ora bisognerà difendere con la stessa determinazione e la stessa ostinazione con cui lui sta restituendo e riabilitando i nomi infangati delle vittime di Stalin.

Il 5 agosto ci siamo ritrovati ancora per leggere gli elenchi della memoria. Abbiamo pensato a Sandormoch, al silenzio, alla memoria fulgida e alla verità di questo luogo. E siamo stati insieme, sì, raccolti nell’abbraccio della resistenza e della speranza.

Dmitriev

Jurij Dmitriev.

La guerra per l’anima

No, non dirò dove mi sono imbattuta in queste parole, farei troppo onore a chi le ha dette. Del resto, non è la prima volta che le ritrovo:

«Sono una manciata di dilettanti che nessuno ha mandato a chiamare e che non cambieranno nulla: vanno lì solo per mettersi in mostra»

«Ma quanti brutti ceffi circolano in questo paese!», e cose ben peggiori… Non so in quanti siamo a tifare per Dmitriev e per le vittime di molti altri processi ingiusti, ma so che stiamo diventando sempre più numerosi: non in virtù della propaganda e della pubblicità, ma come un flusso naturale, a volte inatteso. So anche un’altra cosa per esperienza personale: qualcosa sta comunque cambiando. Basta che un «pugno», o meglio un inimmaginabile, gigantesco gruppo di persone incredibilmente diverse fra loro e niente affatto eroiche arrivi ad alzare il posteriore dalla sedia del suo ufficio, dal divano o dallo sgabello della cucina, che rinunci a una piccola parte delle sue abituali comodità per essere vicino a coloro che sono «perseguitati ingiustamente e condannati senza colpa», stare in piedi davanti a un tribunale o altrove, per far sì che questi «piccoli gesti» cambino l’atmosfera della società, e facciano respirare più liberamente.

Fondaminskij

Il’ja Fondaminskij (1880-1942).

Una delle personalità secondo me più straordinarie dell’emigrazione russa fra le due guerre fu Il’ja Fondaminskij, fondatore della rivista parigina «Annali contemporanei». Fu amico di Nabokov e di numerosi letterati parigini – dai poeti «veterani» della colonia russa in Francia ai giovani anticonformisti di Montparnasse, – come pure di chiunque fosse stato colpito da una sciagura, grande o piccola, e indipendentemente dalle sue origini e occupazioni. Fondaminskij alla fine degli anni ‘20 concepì l’idea di un Ordine dell’intelligencija russa, concepito non come istituzione o corporazione, ma come un sodalizio di persone diversissime fra loro, accomunate dal desiderio di servire con abnegazione cavalleresca, da una «Weltanschauung globale», dalla disponibilità a rinnegare se stessi e dalla fiducia reciproca. In questo nuovo Ordine – scriveva Fondaminskij, – «ci saranno correnti ispirate a varie concezioni del mondo, ma avranno tutte uno spirito diverso da quello della mentalità dominante cui tutte si contrapporranno».

Le cose più importanti, riteneva Fondaminskij, non avvengono a livello della grande storia o della politica, ma nelle anime delle persone, perciò il compito principale dell’Ordine era «la guerra per l’anima».

Un giorno la si sarebbe combattuta là dove il regime bolscevico aveva instaurato il «potere della satanocrazia», per il momento essa si svolgeva nell’ambiente eterogeneo dell’emigrazione, e le armi di questa battaglia erano la compassione e la testimonianza dell’azione solidale. La presenza di questa «fraternità oblativa» amplia lo spazio della libertà, guarisce dall’estraneità reciproca, e in questo modo, nascostamente, impercettibilmente ma indubbiamente trasfigura il mondo. Qualcosa di analogo penso avvenga anche oggi, ogni volta che persone incredibilmente diverse e fino a quel momento sconosciute si legano per solidarietà non nei confronti di «uno del gruppo», ma di un perseguitato – del resto cessano di esistere i «nostri» e «gli altri», – e nasce la familiarità nel dolore e nella speranza. Nella semioscurità dell’impotenza, inevitabile là dove la norma è la scissione e la divisione, irrompe la luce, che si moltiplica se la si condivide. Ma ciò significa che il mostro non è onnipotente, che cambiare qualcosa si può. Però solo insieme, «con un libero atto dell’Ordine», come avrebbe detto Il’ja Fondaminskij.

Ho fatto questa nota non per mettermi a discutere con i malvagi profeti di sventura, ma per tentare di raccontare un fenomeno che ho osservato: un fatto evidente, consolante e incoraggiante.

regola d’oro della resistenza

Lo stesso in Bielorussia…

Quegli uomini tronfi e armati che afferrano i pacifici cittadini a Minsk, che picchiano in sei un solo uomo inerme, che aggrediscono le donne, che sparano per uccidere a Brest, ebbene questi uomini in nero hanno paura.

Mentre li abituavano a usare la forza in modo stolto, incontrollato e illegale, li hanno abituati anche ad avere paura di quelli contro i quali usano la forza, altrimenti come spiegare tanta crudeltà?

Li hanno abituati ad avere paura delle persone inermi che stanno sulla pubblica piazza con i fiori in mano, dei passanti, di tassisti e medici; ad avere paura del potere che senza tante cerimonie può fare a loro quello che loro fanno agli altri.

Mentre i loro oppositori sono persone belle e intrepide, non personaggi «di ferro» né super eroi secondo i cliché disumani della retorica sovietica, ma gente che non conosce la paura davanti alla vita, motivo per cui si allinea a formare una catena di solidarietà a Minsk, scende in strada a Vitebsk (nei cui cieli suonava la tromba l’angelo di Chagall), a Grodno, Žlobin, Gomel’, Borisov, a Šklov, dappertutto. In molte città, come afferma il canale Nexta Live, sono iniziati gli scioperi. È iniziato anche il blocco delle strade in tutta la Bielorussia. Quelli che hanno paura, furibondi per il panico, prendendo la propria paura per un «dovere d’ufficio», hanno incominciato ad arrestare la gente a Grodno e a Minsk.

Alle proteste si è unita Orša, una catena di solidarietà si è formata a Soligorsk e in altre cittadine minori. Intanto a Minsk hanno chiuso le stazioni centrali del metro. Ieri un vecchio amico di Minsk ha chiesto di pregare. Questo è il poco che possiamo fare da lontano. Cari amici bielorussi siamo con voi col pensiero e il cuore.

regola d’oro della resistenza

Per la vostra e la nostra libertà!

Il male è brutto per sua natura, per questo ha paura e non tollera la bellezza. E ciò che succede ora a Minsk, tra le altre cose, è molto bello. Gli uomini armati e i provocatori che cercano di surriscaldare la situazione a Minsk e nelle altre città sono scesi in campo contro la bellezza, mentre gli «specnaz con la testa sulle spalle», come dice Nexta, passano dalla parte della gente.

Angeli tutti, non ci abbandonate…