11 Settembre 2019
Un corridoio… e la memoria del male
Svetlana Panič
Filologa, è stata ricercatrice presso l’Istituto Solženicyn di Mosca fino al 2017, ora è traduttrice e ricercatrice indipendente.
È un’impressione tremenda quella che mi ha lasciato il Museo del KGB a Vilnius, dove sin dal XIX secolo si trovava una prigione, poi appartenuta all’NKVD dal 1940, alla Gestapo da fine giugno del 1941, e poi ancora all’NKVD e al suo glorioso successore. L’impressione è stata ancora più forte che ad Auschwitz. Cerco di capire perché.
Forse perché ad Auschwitz trovi un dolore pieno di lacrime, mentre qui trovi un’immensa ferita, sanguinante e ancora aperta. Ne avevo già letto in passato, ma un conto è la narrativa, un altro è entrare nello stretto corridoio, dove l’aria è densa di orrore e di sangue, guardare le pareti ripitturate decine di volte per nascondere le parole che i detenuti riuscivano in qualche modo a tracciare prima di essere condotti da quella casa chi alle fosse comuni, chi in lager.
L’impressione più potente me l’ha lasciata Ričardas, che ci ha guidato per questi corridoi. Formalmente è il capo delle guide, ma in realtà è un testimone oculare, la cui biografia costituisce un nodo della storia lituana del XX secolo. Ascoltare seriamente un testimone può essere pesante, il racconto diretto non risparmia i sentimenti. Diverse volte avrei voluto esclamare: «Basta! Ci sono dei bambini!».
I bambini piangevano. Poi una ragazza meravigliosa ha detto tra le lacrime: «È stato importante per me sentire queste cose».
Queste cose: e cioè sentir raccontare di un’altra ragazza di 12 anni, coi capelli neri, portata alla Gestapo assieme ai genitori. La mamma, quando fu chiaro che li avrebbero fucilati, la convinse a scappare. La ragazzina andò verso il portone, il soldato tedesco la lasciò uscire ma prima le mostrò la fotografia di sua figlia; quando poi lei suonò al campanello della prima casa che incontrò, il lituano antisemita che vi abitava la afferrò, la gettò in cantina, la violentò e la picchiò. La ragazza riuscì di nuovo a scappare, e quando cadde svenuta sulla strada fu raccolta da dei contadini: rimase nascosta nella loro fattoria sino alla fine della guerra, vivendo assieme alle loro figlie biondissime. Nessuno la denunciò.
Sentir raccontare della nonna di Ričardas, che alla fine della guerra trascorse qualche tempo in una cella dell’NKVD, e quando la chiamarono a riconoscere il corpo di suo marito, fucilato come partigiano, lei, per salvare la famiglia, non tradì con un solo sguardo o un gesto il suo strazio.
Sentir raccontare dei farabutti e degli eroi che ci sono in ogni popolo, della reciproca ferocia, delle fughe e delle torture. Sentir raccontare anche di quando è venuto in visita il papa a pregare per tutti i torturati; sentir raccontare delle raffinate torture che si praticavano tra queste mura, e se abbiamo o no il diritto di giudicare quanti non le sopportarono; e poi ancora di cose altissime e di bassezze. Sentir raccontare della storia come tragedia e della memoria sanguinante che duole in Ričardas, e in ciascuno.
È un’esposizione spietata, dopo la quale non sai più come vivere ancora, e tutte le parole più alte e più giuste sembrano fiorellini di mediocri poeti. Ma percorrere quel corridoio è assolutamente necessario. Non per alimentare l’odio ma per versare lacrime: questa tragedia non ammette altra catarsi.
E se qualcuno vorrà percorrerlo, è meglio che lo faccia con Ričardas. Ascoltarlo fa male, ma è un male indispensabile.
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