24 Marzo 2021

Domenica del perdono – il rischio di cambiare

Svetlana Panič

Filologa, è stata ricercatrice presso l’Istituto Solženicyn di Mosca fino al 2017, ora è traduttrice e ricercatrice indipendente.

Per me la Domenica del Perdono, che precede l’inizio della quaresima, si è sempre distinta nel calendario non per il rito religioso ma come momento di passaggio alla profondità e al silenzio. O meglio, come confine tra un tempo in cui lo sguardo è, più che banale, annoiato, confuso, l’udito ostruito, capace di cogliere soltanto i gusci sonori; e un tempo che invece ti mette in cammino, che ti dà la speranza di diventare un essere nuovo e di non avere paura di questa novità.

Ogni anno questo confine ha assunto tratti diversi. Alcuni anni fa, alla vigilia della Domenica del perdono in gruppo abbiamo gustato bliny con i contorni assortiti suggeriti dalla letteratura classica, urlando canzoni a squarciagola. Un altro anno siamo andati a trovare una collega chiusa in casa con la gamba rotta, e abbiamo fritto dei simboli solari dai contorni bizzarri, rallegrandoci della nostra amicizia; un’altra volta con le amiche abbiamo organizzato una solenne libagione a base di birra; un’altra ancora ci siamo fatte una mangiata di torta al cioccolato; l’anno scorso abbiamo ascoltato le canzoni di Julij Kim alla «Brasserie belge».

Quest’anno è successo che, dopo un inizio faticoso per via di una frattura, per me il confine non è stato segnato da un cambiamento di percezioni ma dalla linea dei ricordi; la memoria fa risaltare ancora di più la realtà dell’uscita, del passaggio e del camminare in «terra incognita».

Si capisce con una chiarezza mai avuta prima che i viaggi più importanti li affrontiamo sempre da soli, e quelli che incontriamo, che accettano di condividere con noi la strada, un boccone, una parola, sono sempre un dono accidentale, imperscrutabile.

Per quanto riguarda l’uso devoto di chiedere perdono a tutti quanti (negli inni spirituali si chiede perdono non solo alle persone ma ai muri, alla terra, all’erba e agli animali), a mio avviso il fatto che sia un rito codificato in un certo giorno allontana la consapevolezza che il perdono è innanzitutto un lavoro incredibilmente duro, e reciproco. Che richiede da entrambe le parti non un impulso momentaneo, ma il coraggio di vedere il male compiuto e il volto dell’altro, senza nascondersi dietro a maschere, alla «complessità del momento», né alle autogiustificazioni. È una cosa che costa dolore; nella logica della cancel culture un lavoro simile può sembrare un masochismo anacronistico, ma è l’unica cosa che ci riporta nel profondo e nel silenzio, dove all’anima è restituita la vita.