11 Marzo 2019

Non possiamo «chiudere il cielo»

Redazione

È iniziata la Grande Quaresima anche per le Chiese ortodosse che festeggeranno la Pasqua il prossimo 28 aprile. Dopo che, la scorsa settimana, le Chiese di tradizione latina – martedì […]

È iniziata la Grande Quaresima anche per le Chiese ortodosse che festeggeranno la Pasqua il prossimo 28 aprile. Dopo che, la scorsa settimana, le Chiese di tradizione latina – martedì la romana, sabato l’ambrosiana – hanno concluso il carnevale, tutta la cristianità è ora impegnata a vivere il tempo della penitenza e del rinnovamento.
Non possiamo non coglierne tutta la necessità, oggi particolarmente drammatica. Nel suo messaggio per la Quaresima, papa Francesco ci ha ricordato che le conseguenze del peccato sono devastanti non solo per il rapporto dell’uomo con Dio, non solo per i rapporti tra gli uomini, ma perfino per il creato, proteso con ardente attesa verso «la rivelazione dei figli di Dio» (cfr. Rm 8,19).
Non possiamo nasconderci che la testimonianza dei cristiani, in questo momento storico, appare sovente una contro-testimonianza, che offusca la bellezza del volto della Chiesa, rendendo meno evidente il suo essere totalmente protesa verso il Signore Gesù. Se guardiamo a Occidente, vediamo quali profonde ferite le miserie e il peccato di singoli e di gruppi di potere hanno inferto al Corpo Mistico di Cristo, colpito nelle sue membra più piccole e indifese, generando scandalo e discredito per tutta la Chiesa. A Oriente, le Chiese ortodosse – a seguito delle vicende di cui più volte ci siamo occupati su questo portale – vivono oggi una profonda crisi causata dallo scontro tra la Chiesa russa e il Patriarcato di Costantinopoli, che ha portato alla rottura unilaterale della comunione da parte di Mosca e alla richiesta, rivolta da ambo le parti alle altre Chiese nazionali, di schierarsi per l’una o l’altra parte in conflitto.
Da queste tempeste che avvengono in capite viene colpita la fede dei semplici, e sempre più viene messa in dubbio – sui mass media ma anche nell’opinione di moltissimi – il significato della Chiesa quale sacramento universale di salvezza (cfr. Lumen Gentium 48), fino a definirla piuttosto come un ostacolo per la realizzazione integrale dell’uomo.

A queste difficoltà è facile reagire cadendo in due opposte tentazioni: da un lato, cercando di minimizzare la portata del peccato e dell’azione del Divisore, per affermare che la Chiesa ha sempre dovuto subire persecuzioni e discredito e dunque che la crisi attuale è soprattutto frutto di calunnie e complotti; dall’altro, adottando un atteggiamento che vede prevalere anche ad intra una sorta di appiattimento sulle richieste di «pulizia» formulate da quanti giudicano la Chiesa dall’esterno, ovvero secondo logiche assai diverse da quelle del vangelo (e, chiaramente, rilevare questo rischio non significa affatto negare la necessità di rivedere e correggere logiche di potere e comportamenti antievangelici, come con tutta chiarezza ha indicato papa Francesco nei discorsi recentemente tenuti nel quadro dell’incontro in Vaticano per promuovere la tutela e la difesa dei minori all’interno della Chiesa).
Se guardiamo ad Oriente, anche lì troviamo la tentazione di fronteggiare in modalità inautentiche le situazioni più impresentabili: con la semplice (e sempre più urlata) riaffermazione del proprio diritto, o con l’accettazione de facto di una situazione di divisione che si vorrebbe lasciare solo allo scorrere del tempo il compito di risolvere.

Il rischio più grande, presente in ambedue i polmoni della Chiesa e capace di generare una sorta di «insufficienza respiratoria», è assai più profondo, e tocca da vicino la fede tanto dei piccoli, quanto dei pastori. Le parole migliori per descriverlo si trovano in un grande maestro spirituale dell’Oriente bizantino, Simeone il Nuovo Teologo, vissuto a cavallo tra il primo e il secondo millennio, morto trent’anni prima dello scisma tra la Chiesa di Roma e quella di Costantinopoli.

In un momento – per fatiche, infedeltà e turbamenti – non meno difficile di quello di oggi, Simeone scriveva, nelle sue Catechesi: «Chi supponete siano quelli che io chiamo eretici? Quelli che negano il Figlio di Dio? Quelli che bestemmiano contro lo Spirito Santo e dicono che non è Dio? Quelli che dicono che il Padre è più grande del Figlio? Quelli che fondono la Trinità nell’unità o che dividono l’unico Dio in tre dèi? Quelli che dicono che Cristo è sì Figlio di Dio, ma non credono che abbia preso carne da una donna? (…) Per nulla! Non ti parlo di alcuno di questi empi e atei, né di altre eresie che apparvero come tenebra, dissipate poi dai santi Padri che rifulsero in quei tempi. (…) Quelli di cui parlo e ai quali do il nome di eretici sono quanti affermano che in questo nostro tempo non c’è tra noi nessuno che possa osservare i comandamenti evangelici e assomigliare ai santi Padri: che sia innanzitutto credente e agisca secondo la fede…

Quanti dicono che questo è impossibile sono caduti non in una sola eresia, ma in tutte, perché, se così posso dire, questa le supera e le fa scomparire tutte per l’empietà e l’eccesso di blasfemia. Chi dice così sovverte tutte le divine Scritture. Invano si legge ancora il santo vangelo, afferma costui che è esso stesso vano; invano si leggono i testi del grande Basilio e dei nostri altri santi Padri e vescovi, invano essi hanno scritto…

Quanti parlano così chiudono il cielo che Cristo ci ha aperto e interrompono il cammino che lui stesso ci ha segnato per risalirvi. Allora, mentre Egli stesso, che è Dio al di sopra di tutto, dall’alto, dalla porta del cielo si china e, attraverso il vangelo, grida ai fedeli queste parole: “Venite a me, voi tutti che siete affaticati e oppressi, e io vi ristorerò”, questi nemici di Dio, o, per meglio dire, questi anticristi, dicono: “È impossibile, impossibile!”».

La più grande eresia, dunque, è la mancanza di fede nella umana praticabilità del vangelo, che si tramuta nell’affermazione che all’esperienza della piena corrispondenza tra l’umanità di Cristo e la nostra bisogna sostituire la scialba ipotesi di una sequela moralistica di cui siamo noi a definire i confini e le aspettative minimali, per non correre il rischio di restare delusi e scandalizzati da una speranza troppo grande. Questa, mi pare, è la grande tentazione del momento presente: una falsa umanizzazione al ribasso della fede cristiana.

Ma come si può rispondere a questa riduzione, che a tanti parrebbe la sola via plausibile da percorrere, stante il desolato spettacolo offerto dalla rappresentazione delle Chiese implacabilmente rilanciata nello spazio pubblico? Quale domanda levare verso il cielo in questo inizio di tempo quaresimale, perché sia esaudibile e giovi alle nostre anime prostrate?
Certamente non è facile inventarsi qualcosa di nuovo e – potenzialmente – più efficace dei suggerimenti della Tradizione (preghiera, digiuno, elemosina), che purtuttavia potrebbero rischiare di apparire – visti i risultati – armi ormai spuntate.

Una parola particolarmente interessante può venire, a questo proposito, da un passo del Trattato Etico di Simeone il Nuovo Teologo, che riprende l’invito di san Paolo a non riporre attese di salvezza nelle opere della Legge (cfr. Ef 2,9) e scrive:

«…non dobbiamo confidare nelle opere, intendo dire nei digiuni, nelle veglie, nel giacere per terra, nella fame e nella sete… Queste cose non valgono a nulla, poiché molti uomini malvagi e miserabili, che si sono ridotti in questo stato, sono rimasti tali e quali, senza perdere niente della loro malvagità e senza vincere la loro cattiveria. Queste cose certamente ad alcuni giovano, ed essi per questa via conducono il loro corpo all’umiltà, o meglio, all’impotenza e alla debolezza, ma Dio non vuole soltanto questo; Egli desidera soprattutto uno spirito contrito e un cuore contrito e umiliato, e vuole che il nostro cuore gli parli sempre in spirito di sottomissione: “Chi sono io, mio Signore e mio Dio, perché Tu sia disceso sulla terra, ti sia incarnato e sia morto per me, per liberarmi dalla morte e dalla corruzione, per comunicarmi la tua gloria e la tua divinità e farmene partecipe?”. Quando avrai raggiunto tali disposizioni nei moti invisibili del tuo cuore, subito troverai che Dio misteriosamente ti stringe a sé, ti abbraccia e ti dona uno spirito retto nel tuo profondo, uno spirito di libertà e di perdono dei tuoi peccati».

La vera risposta al rischio che la salvezza appaia troppo lontana o venga arbitrariamente ridotta nella sua portata, secondo Simeone, è quella sottomissione del cuore che nasce dallo stupore generato – in chi riconosce tutta la sua pochezza e povertà – dal sentirsi ancora una volta chiamato alla comunione piena con Dio, a partecipare della Sua gloria e divinità. Proprio il riconoscimento della sproporzione tra lo sguardo di Dio e il nostro permette alla ragione di riconoscere che anche la nostra immagine della salvezza – inevitabilmente ridotta – deve cedere il passo all’incontro con la realtà dell’Incarnazione, ovvero all’opera compiuta da Dio, inattesa e irriducibile alla nostra misura, che aspira alla comunione con noi, e non si accontenta di nulla di meno.

In questa prospettiva, allora, la vera penitenza quaresimale diventa l’impegno a ritrovare quella ampiezza dello sguardo e della ragione che è proporzionata a quanto Cristo ha offerto e compiuto per noi. Solo ridando il primato alla contemplazione di ciò che Egli ha fatto possiamo veder rinascere in noi quello stupore che corrisponde al primo albeggiare della speranza. Speranza che ancora la forza di Dio agisca in noi e compia il destino a cui siamo chiamati; speranza che lo Spirito di Dio soffi «per ridare bellezza alla sua Sposa, sorpresa in flagrante adulterio», come ha detto papa Francesco al clero di Roma.

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