30 Ottobre 2019

Dmitrij Val’dejt, io ti ricordo

Svetlana Panič

Filologa, è stata ricercatrice presso l’Istituto Solženicyn di Mosca fino al 2017, ora è traduttrice e ricercatrice indipendente.

È finito il giorno più importante dell’anno, il suo cuore profondo cui tutti gli altri giorni tendono. Il cuore profondo perché la memoria non è un omaggio al passato, ma il nucleo del presente.
Il verso dell’Achmatova: «vorrei citarli per nome tutti, a uno a uno» era la protesta contro l’anonimato totalitario, contro il rifiuto di ricordare eretto a dottrina storica. È una protesta attraverso il ricordo: questo è quello che avviene durante il «Ritorno dei nomi». Una protesta contro il non essere, contro l’usurpazione della memoria, la violenza sulla memoria, contro gli iniqui processi di oggi con la loro menzogna.

Ma non è solo protesta. Vuol dire anche ricucire il tessuto storico lacerato e sfilacciato, e in tal modo ricucire il presente.

La coda che si snoda in piazza Lubjanka è la più bella che ci sia al mondo: è il luogo dove nasce e dà prova di sé la profonda uguaglianza, la solidarietà tra i memori, che vince sia l’amnesia storica che la presente alienazione reciproca. Qui siamo «tutti parenti» in senso orizzontale e in senso verticale. Quello di cui leggi il nome entra a far parte del tuo destino, ritorna, reintegra il mondo.

A me è toccato un foglio con il nome di Dmitrij Petrovič Val’dejt, 32 anni, studente alla Facoltà di ingegneria ferroviaria. Fucilato il 15 novembre 1937. Cosa aveva fatto?
E cosa avevano fatto il pastore della chiesa luterana dell’isola Vasil’ev? Il direttore dell’ufficio cultura e intrattenimento presso l’Amministrazione dei Servizi termali? L’insegnante di fisica? Il veterinario di un kolchoz? Il redattore? L’attrice tedesca che aveva cercato rifugio dalla peste hitleriana nel paese del socialismo vincente? Il giapponese senza fissa dimora?

Nadežda Mandel’štam ricordava che la domanda: «Per cosa li hanno presi» era per loro tabù. «È ora di capire che prendono la gente per niente».
I fucilatori avrebbero voluto che i buchi nel tessuto storico si riempissero di vuoto nero, così come coprivano di inchiostro nero i volti dei «nemici del popolo» sulle fotografie. Un mondo intero veniva distrutto, e al suo posto subentrava l’inferno sordo, cieco e immemore del GULag. Chiamando a voce alta i nomi si sconfigge l’inferno.
Quando alle sette di sera sono tornata alla Pietra delle Solovki, la coda si snodava come un lungo serpente.
Una catena luminosa che riannodava il legame del tempo, i vivi e i morti, il cielo e la terra.

 

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