18 Ottobre 2017
Visitando un antico cimitero ebraico
Che a Palanga, non lontano dal colle di Naglis, esistesse un antico kirkut, ossia un cimitero ebraico del XVI secolo, lo sapevo.
Altra cosa è stato trovarlo. Quel giorno poi non mi ero neanche portata la cartina, ma avevo deciso di andare a intuito, obbedendo alla segreta regola che suggeriscono luoghi come questo: tutto ciò che è necessario viene da solo.
Al cimitero mi ha condotto il bosco, con le rossole a far da segnaletica. Ecco i resti del vecchio muro di recinzione, alcune matzevah – le lapidi ebraiche – miracolosamente sopravvissute. Su alcune di esse, antichissime e ormai ricoperte di muschio, le scritte non si distinguono più, su altre invece sono ancora leggibili.
Una, di marmo nero, è abbastanza recente, evidentemente è stata collocata lì da non molto, e con le sue iscrizioni in lituano, ebraico e yiddish conferma che qui un tempo sorgeva un cimitero ebraico. Vicino ad ogni matzevah ci sono pietre variopinte e levigate dal mare, oppure pigne e in qualche caso candele. Chi le porta qui? Difficile dirlo…
Di ebrei a Palanga non ce ne sono quasi più, benché all’inizio del XX secolo costituissero più del 40% della popolazione dell’allora Polangen, cittadina del governatorato di Curlandia. Già nel 1639 il re Stanislao IV aveva concesso agli ebrei il diritto di cittadinanza e privilegi commerciali così che, dopo l’unione alla Curlandia, quando fu vietato loro di fare i locandieri, la comunità fece valere i propri diritti e, in via eccezionale, gli ebrei di Polangen poterono continuare a gestire locande per un’altra decina d’anni. Nel 1880 costruirono una sinagoga in pietra, all’inizio del XX secolo altre due. Qui c’erano istituti scolastici come la yeshivah e la Talmud Torah, e la gilda dei mercanti ebraici, anche se la maggior parte lavorava nei laboratori per la lavorazione dell’ambra.
Il 22 giugno 1941 Palanga fu occupata dai nazisti, il 30 iniziarono le fucilazioni, a inizio settembre erano già stati uccisi tutti coloro che non erano riusciti a nascondersi. Nel 1959 a Palanga rimanevano solo otto ebrei.
Ma allora, chi porta le pietre, le pigne, le candele? I parenti degli ebrei lituani che da varie parti vengono qui in vacanza? I turisti? Gli abitanti del posto?
«Laba diena» – mi sussurra il buon giorno una sconosciuta. Sta salendo dall’altro lato del colle del cimitero; come me gira attorno alle matzevah, si appoggia a un albero vicino in modo da non darci fastidio a vicenda; dopo un po’ si allontana per rispondere a una chiamata silenziosa. Quel poco che so di lituano mi basta per capire: «Sì, stamattina sono stata in chiesa, adesso sono qui al cimitero».
C’è un silenzio così denso, qui, che lo si può ascoltare all’infinito. E quando alla fine mi decido ad andarmene, ecco che scorgo sotto i piedi un porcino così sodo e fresco che sembra appena spuntato. Ed eccone un altro, e un altro ancora, un intero campo di porcini, inaspettati perché fuori stagione. È come se qualcuno invisibile mi parlasse come si usava a casa di mio nonno, e in moltissime altre case: «Prendi almeno qualcosa, bimba, non puoi andartene via a mani vuote».
Sono tutti vivi.
Poi il bosco costeggia a lungo un dirupo. Il famoso dirupo… E ce n’era un altro, più avanti… Col tempo, alla fine tutto viene coperto dagli sterpi.
Ma non sento la pesantezza, la paura o la disperazione che di solito mi assalgono in luoghi come questo, piuttosto percepisco la quiete trasparente che si instaura quando la sciagura è chiamata per nome, riconosciuta e pianta da tutti coloro che vi hanno preso parte.
Il 23 settembre in Lituania è la Giornata nazionale della memoria dell’Olocausto.
A Vilnius, nelle altre città, nei luoghi delle fucilazioni di massa si leggono i nomi degli ebrei assassinati.
Perché è necessario farlo? Nei primi giorni del seminario estivo sulla memoria ne abbiamo parlato a lungo con Neringa Latvite, splendida ricercatrice e collaboratrice del Museo ebraico di Vilnius, una di quelli grazie ai quali in Lituania dall’inizio degli anni 2000 si svolgono annualmente queste iniziative.
Non è solo un’azione simbolica per strappare al non-essere quanti furono condannati alla cancellazione totale, senza più neppure il nome, ma è per noi stessi. Per sentire il legame con queste persone, e capire che se fossero qui ora noi per primi e tutta la nostra storia saremmo completamente diversi.