12 Ottobre 2016

Andrzej Wajda è morto

Svetlana Panič

Filologa, è stata ricercatrice presso l’Istituto Solženicyn di Mosca fino al 2017, ora è traduttrice e ricercatrice indipendente.

Il grande Wajda. Un suo vecchio amico, l’ottimo critico cinematografico Miron Černenko, definiva Wajda con una parola polacca aulica: wieszcz, che vuol dire profeta, maestro, letteralmente «annunziatore». E non esagerava.
Non solo le tematiche ma la lingua, la plasticità, l’aria stessa dei suoi film, tutto portava in sé l’annuncio della verità, portava alla libertà, costruiva la mente e l’anima. Paesaggio dopo la battaglia, Cenere e diamanti, L’uomo di marmo, L’uomo di ferro, La terra della grande promessa, Una lady Macbeth siberiana, La settimana santa, Katyń.
La riduzione televisiva dei Demoni, meno nota ma splendida, probabilmente è uno dei film migliori «tratto da Dostoevskij» di tutta la cinematografia europea.
Ma per me l’opera migliore di Wajda è Korczak col portentoso Wojciech Pszoniak come protagonista. [Korczak è la storia vera di un insegnante polacco, direttore di un orfanotrofio per bimbi ebrei nel ghetto di Varsavia. Nonostante le pressioni dei nazisti si rifiutò di abbandonare i suoi bambini e morì con loro nel lager di Treblinka]
Praticamente so a memoria quasi tutte le battute, eppure lo rivedo ogni volta che devo accordare lo «strumento» tintinnante su un suono alto e puro.
A questo film è legata una storia che è quasi una parabola. L’estate del 1999 insegnavo ai corsi di aggiornamento per insegnanti. Il pubblico era svariato, perlopiù era gente venuta per imparare la metodologia e portarsi a casa una «guida pratica». Si vedeva che l’analisi del testo letterario li deprimeva parecchio, appena potevano tiravano il discorso sulla vita vissuta, finché, dopo l’ennesima discussione sulla fiducia totale e i diritti del bambino, gli proposi di vedere insieme, la sera, il film Korczak. Quegli insegnanti erano gente compiacente e accettarono tutti.
I primi 20 minuti nella sala si sentiva il fruscio sommesso dei semi di girasole, e qualche risatina alla parola polacca żyd [giudeo]. Poi subentrò un silenzio clamoroso, che mai mi sarei aspettata da una compagnia tanto chiassosa; e quando passarono i titoli di coda si sentì un generale tirar su da 15 nasi. Ci lasciammo al buio.
Il giorno dopo, prima dell’inizio della lezione, mi si avvicinò una delle ascoltatrici più anziane, che insegnava letteratura russa da molti anni in una scuola di provincia, nella zona di Bojarka (Ucraina): «Ma cosa ci ha fatto quel suo film?! Ho pianto tutta la notte; sono un’insegnante, una che conosce tutte le metodologie, e adesso come farò a tornare a scuola? …Anche Anna Vladimirovna vuole dare le dimissioni. Se lei dovesse incontrare quel regista, gli dica che ha fatto tremare il cuore a un’insegnante sovietica con 35 anni di anzianità».
Trasmetto ora. Da «lassù» lo sente meglio.
Conservo un ricordo luminoso e infinitamente grato.