23 Marzo 2022

Portiamo un fantasma sulle spalle

Vladimir Zelinskij

Sacerdote ortodosso (del Patriarcato di Mosca) è filosofo, teologo e traduttore. Dal 1991 vive in Italia, ha insegnato lingua e civiltà russa all’Università cattolica di Brescia e di Milano. Ha al suo attivo numerosi testi di teologia e spiritualità.

Io non cancello dai miei contatti i partigiani dell’«operazione militare speciale» né i cantori-strombazzatori del «mondo russo». Qualcuno di loro, viceversa, ha cancellato me, ma solo pochi. Adesso sono io che li cerco. L’inconcepibile mi ha sempre attirato, anche se mi repelle. Con quali collanti morali e quali giuste ire si può oscurare un male che si espone in modo così palese, crudo, evidente, senza il minimo imbarazzo?

Ho appena avuto una discussione su Facebook con una cara signora, dottore di ricerca in filosofia, molto credente e assai devota.

La discussione era partita da Zelenskij. Ma in realtà lì si è fermata, perché per procedere doveva avere almeno una base comune da cui iniziare, come un punto di evidenza riconosciuto. Lei può fargli la caricatura – le ho scritto – considerarlo la marionetta di certe forze, e considerare queste forze come agenti dell’anticristo – se la vede in questo modo – ma dovrà riconoscere, cara la mia devotissima signora, che fisicamente Zelenskij si trova tuttora a Kiev.

No, mi risponde la fan della geopolitica, lo hanno trasferito nella sua villa di Miami. Eccepisco, e lei ribatte che le ultime notizie sono più precise: lo hanno trasportato in Germania.

Mi è piaciuto soprattutto il verbo di senso passivo: «lo hanno trasferito, lo hanno trasportato».

Così non siamo riusciti a reggerci insieme sullo scoglio scivoloso di un semplice, nudo fatto.

Infuriata, la signora mi ha spinto giù, non limitandosi a bandirmi ma respingendomi nel più completo non-essere virtuale. Ritengo sia ancora convinta che i padroni d’oltreoceano abbiano sistemato da qualche parte il presidente ucraino, come avevano stabilito a suo tempo: tu fai la nostra politica, e poi noi ti infiliamo nella scatola di un aspirapolvere e ti scarichiamo in un vagone piombato.

Questa discussione, di per sé futile, mi ha però aperto gli occhi.

Se esiste un muro che i semplici fatti non possono penetrare, cosa stiamo a parlare di argomenti e di ragioni? Tutti questi prodotti del nostro cervello obbediscono ad altre decisioni che non vengono prese dal cervello ma si nascondono nelle nostre passioni, nelle nostre voglie, nei fantasmi che infestano il passato, presenza fissa nella nostra memoria.

Come facciamo a non vedere, sotto le ali degli aerei che bombardano, le ombre dell’impero fino a qualche tempo fa sovietico, prima ancora zarista, molto tempo addietro Terza Roma, ed oggi rieditato come antisovietico ma pur sempre incatenato alla scelta di fare le funzioni di territorio della verità sulla terra?

L’incapacità di separare la fede dai chilometri quadrati di territorio, che permane nel subconscio, trova sostegno anche in gente per la quale il comandamento «non uccidere» dovrebbe stare al primo posto. Macché, ammazza, ammazza pure, esclamano con gioia costoro, perché è in gioco ciò che vi è di più sacro, e come possiamo lasciar entrare sulla sacra terra le armi straniere e le gay parade?

La nostra ortodossia celeste si è gonfiata grazie al suo spirito imperiale. È come un fantasma sulle spalle. Adesso il popolo s’indigna del patriarca: come può dire quel che dice, ma scusate, non diceva le stesse cose anche prima di Pietro il Grande, e dopo (magari attraverso il Sinodo)?

Da lontano, ma col cuore sanguinante, seguo questa guerra. E penso che non a un certo momento ma presto, dovremo tutti liberarci di questo secolare fardello imperiale.