21 Luglio 2024

Verità e violenza non possono stare insieme

Vladimir Zelinskij

Sacerdote ortodosso (del Patriarcato di Mosca) è filosofo, teologo e traduttore. Dal 1991 vive in Italia, ha insegnato lingua e civiltà russa all’Università cattolica di Brescia e di Milano. Ha al suo attivo numerosi testi di teologia e spiritualità.

In Rozanov troviamo scritto: perché la Chiesa, che vede i peccati dell’uomo a una profondità inattingibile a occhio nudo, non li vede là dove si ammucchiano con un peso di cento atmosfere, ossia nello Stato?

Ci sono delle spiegazioni semplici, quotidiane: perché ha paura, perché si adegua, perché si guarda dal peccato del giudizio (o fa finta), e perché insomma «non è affar suo, la Chiesa è fuori dalla politica».

Più o meno fuori. Ma dentro di noi, uomini di chiesa, alberga la solidarietà col peccato, se tale consideriamo la violenza. Tuttavia, la violenza in sé non è considerata peccato perché noi neanche la vediamo. Essa è andata crescendo nella nostra vita ecclesiale, nell’ordine, nel modo di pensare, ha prodotto metastasi, si è intrecciata con la più alta spiritualità e il costume ecclesiale.

Quando ho letto della lite fra il combattente contro le sette [Aleksandr Dvorkin, studioso di religioni, ha fondato un centro contro le sette – ndr] e quello che vorrebbe «spezzare le gambe alle donne» [padre Andrej Tkačev, che così si è espresso riguardo alla vita matrimoniale] mi è risultato evidente che «non si riconoscono tra simili». Talvolta i fenomeni caricaturali contengono qualcosa di profondo. Costoro ragionano entrambi secondo la logica e l’istinto della violenza, senza dubitare di averne il diritto primordiale in base a una solida e antica tradizione. E non ci pensano su, perché la violenza è il linguaggio comune della verità (o di quello che si ritiene essere la verità), ne è l’abito, addirittura la pelle.

Se no, come spiegare il massiccio, vigoroso sostegno ortodosso a qualcosa per il quale non esiste una parola decorosa in Russia?  E c’è qualcosa che non si esprime a parole, senza nome, mortifero, che si abbatte ogni giorno in quantità mai viste, in concentrazioni inimmaginabili sui nostri simili fatti a immagine di Dio.

Se parliamo del «mondo», cosa possiamo trarne? Perché questo, appunto, è il «mondo»: la sua opera sono l’omicidio e i pensieri malvagi; questo è il mondo che il Signore è venuto a salvare. Ma come coniugarlo con l’opera del Signore? Domanda ridicola, naturalmente, ma «in ogni cosa voglio arrivare fino alla sostanza» [Pasternak].

Quella sostanza per cui «da principio non fu così». Il lettore ingenuo del Vangelo come lo legge? Cosa vede? Vede Cristo che ha davanti l’uomo, uno qualsiasi. Stai male? Ti aiuto. Non riesci ad alzarti? Ti rialzo io. Hai peccato? Ti purifico, solo non peccare più. Trai profitto dalla fede della gente semplice? Attento, ti prenderò a sferzate. Ti atteggi a grande credente? Ti chiamerò superbo, senza cerimonie, ti paragonerò addirittura a un sepolcro pieno d’ossa morte… Ma non punirò mai nessuno per non essere d’accordo con la giusta confessione. Neanche mi ricorderò di chiederlo.

Non c’è dubbio che fin dall’inizio la fede dovette essere estratta dal fondo del mistero, rivestita di espressioni razionali, racchiusa nella conoscenza e protetta nella sua formula da forti mura. Ma nella Buona Novella c’era sin dall’inizio il paragrafo che era necessario far rispettare le regole con la forza? Che non solo a causa dell’ostinazione femminile ma per amore della santissima verità era dato il potere di spezzare le gambe a qualcuno? Non solo per mezzo del rogo o dello stivale spagnolo, ma con qualsiasi esclusione dalla famiglia umana: non ti conosco, non c’è spazio comune tra noi, non condivido con te neppure l’aria di Dio che respiro. Ci è stato comandato sin dal principio che bisognava porre il segno di uguaglianza tra una certa formulazione verbale della verità e la persona in carne ed ossa? Il suo volto, il nome, la dignità, il respiro? Il suo diritto di vivere ed essere se stessa?

Forse il vero bilancio di questa guerra, che richiederà una lunga riflessione, consisterà non solo nella futura, dovuta revisione ecclesiale del nostro spirito imperiale e del culto del Baal locale, ma anche nel fatto che, arrivando fino alla sostanza, riflettiamo anche su questo? Che riflettiamo sul fatto che è tempo di stabilire su pianeti diversi la verità e la violenza, e non solo quella fisica ma anche quella del pensiero, spirituale? In modo che la questione stessa della loro coabitazione, così evidente per tanti secoli, ci appaia puerile?

E che la verità possa finalmente spogliarsi di questo greve paramento secolare, restando sotto gli occhi di tutti coperta solo del «mormorio di un vento leggero”?