26 Settembre 2019

20 anni di sacerdozio, e non possiedo nulla

Vladimir Zelinskij

Sacerdote ortodosso (del Patriarcato di Mosca) è filosofo, teologo e traduttore. Dal 1991 vive in Italia, ha insegnato lingua e civiltà russa all’Università cattolica di Brescia e di Milano. Ha al suo attivo numerosi testi di teologia e spiritualità.

Il 5 settembre si sono compiuti 20 anni dalla mia ordinazione sacerdotale.
Come sta scritto nella Lettera di ordinazione: «il qui presente diacono timorato di Dio (?), dopo aver superato l’ardua prova (cioè dopo la confessione)… è stato da noi ordinato presbitero» in quella stessa cattedrale parigina di rue Daru che, nella sua antica ipostasi sta vivendo, probabilmente, i suoi ultimi giorni.

Visto da lontano, il sacerdozio affascina per la vicinanza con Dio. Sembra che appena passata la soglia, già vi si è dentro. Ma la vicinanza si ritira.

Uno pensa di fare ingresso in ciò che vi è di più insondabile, che è celato nelle debite parole, riti, simboli, vaste conoscenze, e invece esso non è qui ma oltre, al di là di tutto questo. Pensi di essere alla presenza della Shekhinah, la Gloria di Dio di cui parla la Bibbia, ma ti accorgi che hai una benda sugli occhi e non sai come toglierla. In forza del tuo stato dovresti dimorare nella luce della Grazia, ma dentro hai il buio o al massimo un grigio, immoto albore. Per arrivare a quella luce bisogna uscire da sé, consegnare di sé qualcosa di importante. Compreso molto di ciò che si è acquistato con personale sforzo e purificato.
La carità non cerca il suo interesse, come dice san Paolo.
La carità è povera mentre noi – per l’istinto che abbiamo dentro e che non sempre riconosciamo – cerchiamo di accumulare, di possedere. Possedere la verità, possedere il dovere o il rito compiuto, persino il rito dell’anima.
In effetti, il sacerdozio consiste proprio in tale logica della carità, che rinuncia al suo interesse. Se cercherò di seguirla, forse lo scoprirò.