27 Aprile 2020

Il compleanno di Lenin alla luce del Covid-19

Vladimir Zelinskij

Sacerdote ortodosso (del Patriarcato di Mosca) è filosofo, teologo e traduttore. Dal 1991 vive in Italia, ha insegnato lingua e civiltà russa all’Università cattolica di Brescia e di Milano. Ha al suo attivo numerosi testi di teologia e spiritualità.

Il 22 aprile è stato il 150° della nascita di Lenin.
Ricordo perfettamente il centenario: sembrava la Nona sinfonia di Beethoven eseguita alla grande, con piatti, ferri da stiro e colombi. Un inno alla gioia per metà del pianeta, impossibile trovare un angolo dove andare a nascondersi. Era assolutamente certo che l’inno si sarebbe cantato per il centocinquantesimo, avrebbe tuonato anche per il duecentesimo e avanti così, dato che nessuno poteva concepire il solo pensiero che l’epoca brežneviana a un certo punto sarebbe finita. Adesso, se devo giudicare dallo spazio di facebook in cui dimoro (ammetto che è uno spazio molto limitato), l’attuale centocinquantenario ha fatto una breve apparizione, ma in un contesto più che altro negativo. Gli storici, i retori popolari (ripeto, nel mio ambito ristretto) hanno condannato il festeggiato. La popolazione femminile, a mio avviso, neanche se n’è accorta. I giovani non hanno neppur voglia di gioire, tanto loro all’epoca non erano ancora nati. Tra gli anziani, c’è chi ricorre all’ironia, chi si abbandona ai dolci ricordi. Io, qui, mi permetto di discutere con i suoi critici.

«In realtà – scrive in un post padre Innokentij Pavlov, – il Lenin del gennaio 1917 non avrebbe potuto neanche immaginare come sarebbe stato il Lenin del gennaio 1918». Non solo nel gennaio 1918, ma in tutto il mondo e fino ad oggi. Perché dunque è capitato così, e chi ha colpa? I primi colpevoli sono i «rivoluzionari di febbraio» e con loro tutta l’intelligencija russa, a partire da Radiščev.

Altri dicono: il trionfo di Lenin si deve probabilmente alla guerra, che alla Russia non serviva, e anzi l’ha debilitata del tutto, cosa che in effetti non si può negare. Delle colpe veniali come la massoneria e gli ebrei non sto neanche a discutere.

Ma tutte queste invettive all’indirizzo di Lenin, giustissime di per sé, suscitano in me una protesta spontanea. Perché non è mica stato Lenin con le sue stesse mani, avvezze solo a carta e penna, a prendere il Palazzo d’Inverno. Non era lui che agiva in tutte le Commissioni speciali, che fucilava gli ostaggi, che devastava le chiese.

Non ha fatto niente con le sue proprie mani ma lo ha fatto con le idee. Idee anche molto semplici piazzate in slogan del tipo: «Ruba a chi ruba», ma che erano delle formule verbali piene di fanatismo e capaci di produrre una pressione insormontabile.

Proprio questa combinazione fu capace di sollevare un’altissima ondata umana, uno tsunami delle anime che si è riversato ben al di là della Russia, in tutto il mondo. E ancora si agita da qualche parte. Infatti questi uomini di allora, contadini, apprendisti, sottoproletari, provenienti dai villaggi ebraici e dai sobborghi, che hanno combattuto e sono caduti sui fronti rossi, che portavano via l’ultimo pezzo di pane ai loro parenti e crocifiggevano i preti che li avevano battezzati, erano innanzitutto per la libertà e la parte migliore. E condannavano l’anima loro e quella degli altri in cambio di belle parole. Qualcuno di loro Lenin lo aveva anche letto o sentito, anche se pochi sapevano leggere.

Ma Lenin – alla fine l’ho capito – rappresenta il virus dell’idea, un virus altamente contagioso. Ed è attivo anche oggi. Il nostro paese ha superato la malattia, ma le conseguenze sono ancora spaventose, e quanti infettati ci sono ancora nel mondo.

È il virus della volontà di trasformare il mondo secondo il proprio progetto, e può presentarsi in forma mortale, in forma grave o in forma leggera quasi asintomatica ma un domani può tornare ad essere mortale.

È ridicolo dirlo, ma persino in Italia, dove da 15 anni non c’è più un comunista in parlamento, nella nostra Brescia borghese circa sei mesi fa c’è stato un meeting per la rifondazione di un partito comunista rinnovato. Hanno affittato un piccolo stadio per l’occasione.

Lenin anniversario

I rappresentanti del Partito comunista russo depongono corone di fiori davanti al mausoleo di Lenin a Mosca, 22 aprile.

E negli anni ’90 si presentavano alla porta dei giovani dallo sguardo luminoso, bravi ragazzi, che cercavano di venderci il loro giornale Lotta continua che non era neanche comunista ma più a sinistra. Ed era difficile immaginare che questi studenti-politologi o idealisti, che consegnano le pizze a domicilio e leggono molto, un giorno avrebbero potuto «fucilare degli infelici nelle segrete». No, probabilmente non lo avrebbero fatto. Piuttosto qualcuno avrebbe fucilato loro.

Il virus circola ancora in Europa, e se questa precipitasse nella miseria sarà grande la tentazione di tirar su nuovi ragazzi coi loro giornali (quelli di un tempo, credo ci abbiano ripensato), dargli un’arma e poi tutto seguirà il suo corso. In nome della libertà o, al contrario, per la salvezza della nazione. Questo virus muta meglio del Covid-19. Basta vedere come il virus-Lenin è mutato nel virus-Stalin, che fingendo il culto di Lenin schiacciò il partito leniniano. Sono pronto a litigare con tutti gli antistalinisti: non è questione del malvagio; la distruzione della causa di Lenin inneggiando a Lenin era già scritta nel dna del virus. Non ci fosse stato Stalin, avrebbe risposto un Kirov, Tuchačevskij, Ordžonikidze o Bonč-Bruevič qualsiasi, e avrebbe fatto più o meno lo stesso. E poi il virus mortale e assassino si sarebbe necessariamente trasformato in un virus di denuncia, chruščeviano, quasi un antivirus, per poi stabilizzarsi nel virus-Brežnev, per poi riformularsi nel virus-Gorbačev perché «non si poteva andare avanti così», e alla fine si sarebbe spento, e amen.

Chiamatemi come volete, ma io non credo all’importanza esclusiva delle grandi personalità nella storia. Non riesco a crederci. Vedo in loro soltanto il concentrato della pazzia collettiva. Credo nel ruolo dei virus delle grandi idee (come dice l’apostolo: «gli spiriti del male che abitano nelle regioni celesti»), grazie ai quali le persone infettate sono sempre pronte a versare sangue senza limiti.

Di questo virus prima ci si ammala in forma acuta, poi si passa alla fase mediana, poi c’è la fase di conservazione, si affievolisce, passa. Ieri fucilatore, domani riformatore. A dire il vero, anche nella fase di remissione il virus lascia degli effetti, a volte a lungo termine, a volte terribili.

Tutto il periodo post-sovietico è una fase di remissione con recidive.
Il 24 aprile è stato il momento per fare memoria (spero nella preghiera) del mostruoso genocidio armeno. Centocinque anni fa. E anche questo non è successo solo per ferocia sanguinaria, ma in nome dell’unione della grande idea dei Giovani turchi e della nazione…

 

 

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