12 Marzo 2019

Gorbačev, che nessuno amava

Vladimir Zelinskij

Sacerdote ortodosso (del Patriarcato di Mosca) è filosofo, teologo e traduttore. Dal 1991 vive in Italia, ha insegnato lingua e civiltà russa all’Università cattolica di Brescia e di Milano. Ha al suo attivo numerosi testi di teologia e spiritualità.

La politica – come si fa a sfuggirle? – ci ricorda che il 2 marzo Michail Gorbačev ha compiuto 88 anni.
È nato a Privol’noe, nel Caucaso settentrionale, ed è successo che questo nome ha lasciato un segno nei destini del paese chiamato «Unione Sovietica», sino a decretarne la fine. Questo vale, naturalmente, per chi non è rimasto offeso dal finale. Per chi non vorrebbe dar fuoco a Privol’noe fino a ridurlo a un mucchio di cenere.
Nei confronti di Gorbačev ci sono «due sentimenti incredibilmente condivisi da noi tutti»: la più radicale condanna, che può venire dall’odio istintivo per il tradimento o viceversa dal disprezzo perché si è fermato a metà; e il rifiuto altrettanto radicale di volerci capire qualcosa e di fare una minima analisi, lasciando da parte cliché ed emozioni.

Insomma, c’era una volta l’Unione Sovietica, intrepida e forte per i conservatori, totalitaria per gli occidentalisti. Poi d’improvviso è arrivato un provocatore di nome Gorbačev, che ha mandato tutto a carte quarantotto. Per ordine della CIA o per un piano segreto del KGB, il che, quanto al risultato, fa lo stesso. Povera Unione Sovietica! Così grande, fragile e indifesa! È bastato che un qualsiasi funzionario di partito le desse uno spintone, che il gigante si è abbattuto da un lato.
Unione Sovietica. Unione? Ma quanta libera unione fraterna c’era lì dentro?
Sovietica? Funzionavano davvero i soviet al suo interno, secondo l’originario significato della parola ormai morto e sepolto? «Lì solo i čekisti fanno il soviet», scrisse una volta Bunin, e sicuramente sbagliava. I čekisti, esattamente come tutti gli altri e anche più degli altri, non facevano che eseguire un mandato.
Lo si poteva considerare un mandato «socialista»? lo stesso Andropov aveva ammesso che «prima di arrivare al socialismo vero ne abbiamo ancora di strada da fare…».
E ormai era ridicolo farla passare per l’unione prospera delle repubbliche, dove i cittadini, le masse, i popoli eleggevano qualcuno e tutti insieme risolvevano le loro questioni.

L’Unione Sovietica era il paese del desiderio, la nazione del magnifico sogno, una fabbrica che produceva parole piene di un dolce fumo ottenebrante. Il fumo col tempo si è disperso, ha smesso di ottenebrare, ma le strutture sociali, comportamentali, ideologiche sono rimaste ancora a lungo, anche se si sono rapidamente usurate.
Dietro alle parole stava la realtà, che non si poteva mostrare per nessun motivo. L’incommensurabile violenza, le morti sterminate, e poi la mancanza di libertà, lo squallore, la povertà. In compenso c’era la stabilità, basata sulla vendita delle materie prime e su un’economia moribonda. Sembrava che sarebbe bastato smontare questa economia, strappare di bocca la bottiglia alla popolazione e la faccenda sarebbe andata con le sue gambe. Ma poi si è visto che niente andava con le sue gambe senza qualche elemento di mercato, senza un po’ di democrazia, senza una qualche libertà personale magari striminzita, controllata, ma pur sempre libertà.

Così è stata permessa la glasnost’. I prigionieri politici hanno incominciato a uscire dalle prigioni. Poi le votazioni semilibere al Soviet Supremo. Dove si tenevano discorsi indipendenti (confrontiamoli con la Duma di oggi). Il ritiro delle truppe dall’Afghanistan, la riconciliazione con l’Occidente, la possibilità di andare all’estero. E tutto il resto, se qualcuno ancora se lo ricorda.
Attraverso la glasnost’ subito è venuta alla luce la realtà che era stata tenuta segregata, sotto il controllo del partito, in reclusione stretta. Ma la realtà, come un’ondata di dieci metri, ha travolto senza difficoltà la diga che si chiamava Unione Sovietica. Ed è inutile raccontare qui di piani e complotti. Magari c’erano, o forse no, ma certo non hanno determinato in nessun modo la grande storia. Era bastato dare alle parole su cui si reggeva il comunismo un poco di significato, vicino a quello letterale, perché gli si aprisse una voragine sotto i piedi…
E questo non lo si poteva fare dall’esterno – attraverso i «diritti dell’uomo», le pressioni dell’Occidente e i piani della CIA, cose contro le quali il sistema aveva alzato le difese, – ma solo dall’interno, dalle viscere dell’apparato del partito, dove non c’erano difese.

Qualsiasi cosa volesse fare personalmente Michail Gorbačev, certo come segretario generale del Comitato Centrale del PCUS non poteva in nessun modo volere la caduta del comunismo, che nel nostro paese costituiva l’Unione Sovietica stessa; per suo tramite la storia ha compiuto la sua opera necessaria e difficile. E solo per suo tramite ha potuto farlo. Ma avrebbe anche potuto seguire lo scenario jugoslavo, dato che d’un tratto tutte le repubbliche fraterne avevano tirato fuori qualche vecchia offesa e gli interessi del sangue, e non si sa chi sarebbe sopravvissuto, in quel caso. Dio ci ha fatto la grazia.

A Gorbačev imputano come colpa tutto quello che è successo dopo. Bisognerebbe piuttosto imputarla a Lenin e Stalin, che hanno creato un paese ideologico, che ha fatto fuori tanti uomini in nome di un fantasma che poi è svanito nel nulla, è sparito chissà dove. Quello che solo i nostri pensatori ortodossi non riescono a capire è che non si può annientare tanta gente e poi vivere come se niente fosse, una vita stabile, eterna e magnifica. Le ombre ritornano. E, in qualche modo, si vendicano.

Tags: