29 Giugno 2020

Cambia la musica della storia

Vladimir Zelinskij

Sacerdote ortodosso (del Patriarcato di Mosca) è filosofo, teologo e traduttore. Dal 1991 vive in Italia, ha insegnato lingua e civiltà russa all’Università cattolica di Brescia e di Milano. Ha al suo attivo numerosi testi di teologia e spiritualità.

«Perché sforacchiano un’antica cattedrale?» – si chiedeva Aleksandr Blok nell’articolo Intelligencija e rivoluzione, nel 1918 – Perché lì per cent’anni grassi preti, col singhiozzo, avevano preso bustarelle e commerciato in vodka.
Perché insozzano le tenute signorili tanto care al nostro cuore? Perché là violentavano e frustavano le ragazze, magari non proprio là, ma in quella del vicino.
Perché abbattono parchi centenari? Perché per cent’anni sotto i tigli e gli aceri frondosi i padroni avevano fatto mostra del loro potere sbattendo in faccia ai poveri la borsa, e agli stupidi la cultura.  Proprio così.

So quel che dico. Non si scappa. Non si può tacerlo; e invece tutti tacciono».

Perché spaccano i vetri, rovesciano le auto, svaligiano i negozi? Perché centinaia d’anni orsono dei bianchi avidi e spericolati traversarono l’oceano con le loro vele per scambiare con i re africani fucili, perline di vetro e acqua di fuoco con schiavi destinati alla vendita. Oppure neanche scambiavano, non compravano ma semplicemente li catturavano e li portavano nelle stive in un altro continente. Laggiù la schiavitù non c’è più da un bel pezzo, ma qualche strascico ancora rimane. Non si scappa.

Dai grovigli di rabbia, 200 anni dopo nasce la musica della rivoluzione, che straripa oltre gli argini. E a volte spazza via tutto.

I distruttori del vecchio ordine diventano i fondatori di quello nuovo. La loro musica si impietrisce. Trasloca in automobili che non si possono fracassare; costruisce prigioni da cui non si può scappare.

La musica della rivoluzione muore prima della rivoluzione stessa. Blok questo lo aveva già capito dopo sei mesi. E ha vissuto i suoi ultimi, ancorché giovani anni, dimenticando di scrivere poesie, facendo l’impiegato di istituzioni sovietiche. Ma quando obbediva alla propria musica, da cui erano nati I Dodici, non sceglieva parole irose o patetiche.

«Cosa si è concepito?
Di rifare tutto. Di fare in modo che tutto sia nuovo; in modo che la nostra vita bugiarda, sporca, noiosa e deforme diventi giusta, pura, lieta e bellissima».
9 gennaio 1918.

E quando la melodia tacque, lui morì.

Poi, in risposta a una musica ne nasce un’altra. Un’altra musica che dice quanto era bello, quanto si stava bene nelle antiche cattedrali, nelle tenute signorili, nei parchi centenari. Che nelle piantagioni del sud c’era un paradiso patriarcale che abbiamo perduto. E che ora bisogna recuperare tutto questo. E bisogna mandare alla gogna gli autori della musica della rivoluzione. Cent’anni fa come oggi.

Il vantaggio della democrazia sta nel fatto che, a differenza della monarchia, del comunismo, del fascismo, dei regimi di unità nazionale e via discorrendo, non è per niente musicale. Non capisce le melodie della storia e non vi ubbidisce. Per quanti vetri tu spacchi, per quante automobili rovesci, i grovigli di rabbia alla fin fine si sciolgono, e sprofondano nella noiosa routine elettorale. E tutto sarà come se fosse com’era.

Solo, la musica si eclisserà da qualche parte.