27 Luglio 2023

In memoria dei Romanov. Una riflessione non monarchica

Vladimir Zelinskij

Sacerdote ortodosso (del Patriarcato di Mosca) è filosofo, teologo e traduttore. Dal 1991 vive in Italia, ha insegnato lingua e civiltà russa all’Università cattolica di Brescia e di Milano. Ha al suo attivo numerosi testi di teologia e spiritualità.

Per molti anni l’eccidio della famiglia imperiale, avvenuto ormai 105 anni fa, è stato per me uno tra i tanti omicidi insensati perpetrati dal «potere delle tenebre» che si era insediato e che in quel modo cercò di consolidarsi.

In Francia, dove il 14 luglio è la festa principale, il senso comune per bocca di Albert Camus si è così espresso riguardo all’esecuzione di Luigi XVI: «È uno scandalo ripugnante che si sia presentato come un gran momento della nostra storia l’assassinio pubblico di un uomo debole e buono» (L’uomo in rivolta). Ma non mi è mai capitato di incontrare un cattolico che avesse preso in considerazione la possibilità di canonizzarlo, benché Luigi non avesse spinto il suo paese nella fossa di una guerra da incubo, né avesse mai dato ordine di sparare sui cittadini inermi. E aveva pure accettato cristianamente la propria morte, come Carlo I d’Inghilterra.

Perché allora in un caso l’esecuzione del sovrano è rimasta solo un episodio drammatico di una grande storia, mentre nell’altro è diventata la ferita sanguinante della nostra religione nazionale?

Il significato mistico di questo regicidio contrasta il senso comune – che nega semplicemente qualsiasi sentenza di morte, per non parlare di quella dei figli – e lo batte. Quale mai «uomo debole e buono»? Nicola fu Boris e Gleb riuniti in una sola persona, il martire del «potere ateo», quasi redentore dei peccati della Russia con quella sua fede autoctona che somiglia al cristianesimo.
Mi sbagliavo, non si è trattato di un singolo spargimento di sangue tra innumerevoli altri. Quel sangue, come per l’emofilia, non può coagulare.

Se la Russia avesse seguito la strada imboccata da Alessandro II (della cui canonizzazione, fra l’altro, neppure si fa parola) andando sempre avanti con decisione, se la Provvidenza avesse risparmiato suo figlio Nikolaj, morto a Nizza nel 1865 per tubercolosi ossea, forse chissà, oggi un nipote o pronipote dello zarevič Alessio darebbe la sua approvazione ai nuovi premier di sua altezza imperiale eletti di volta in volta dalla Duma. E vivrebbe in pace – come scrive l’antica Cronaca del principe Vladimir isapostolo col re polacco Boleslao e il ceco Ulrico – con il presidente-etmano ucraino e col vicino georgiano, e non farebbe il bullo coi baltici…
Invece Nicola, divenuto imperatore, volle che tutto fosse esattamente «come sotto il suo defunto padre». Ma una cosa del genere non esiste.

Non esiste in Russia. Il cui sangue ha cominciato ad addensarsi, i vasi si sono ostruiti sino a che sono scoppiati. Ed è subentrata la paralisi, per cui tutto l’umano si è ossificato. Sino al giorno presente. E non si è mai capito come sia successo. C’è, sì, la teologia dell’«invasione degli uomini malvagi» in tutte le possibili varianti; una teologia organica, confortante, emotiva, ma non posso dire che brilli per grande profondità. Del resto, ce n’è un’altra?

La venerazione migliore di questo particolare martirio, che resta a tutt’oggi unico nel suo genere, sarebbe a mio avviso quella di purificare il nostro sangue dall’innato imperialismo, dall’antico odio che cerca il nemico, dal possesso della verità salvifica che va imposta a tutti, dall’orgoglio dei liberatori, dalla furia dei vendicatori; da ciò che produce oggi la guerra.

Ma il sangue in Russia si fa sempre più denso, più pesante. Per ora è così.


(Foto di apertura: pastvu.com)