1 Febbraio 2016

Testimone della scoperta del secolo

Julija Kominko

Il mistero dei resti della famiglia imperiale è durato oltre 70 anni. Nel 1991 il primo rinvenimento. Ma tra i corpi ne mancavano due. Sergej Čapnin era presente al loro ritrovamento nel 2007. Segno che la verità non si cancella.

Intervista a Sergej Čapnin

I fatti: la notte tra il 16 e il 17 luglio 1918, a Ekaterinburg, un gruppo di bolscevichi fucila nel seminterrato della casa Ipat’ev la famiglia imperiale, composta dallo zar Nicola, la moglie Aleksandra, le quattro figlie Ol’ga, Tat’jana, Marija, Anastasija, e l’erede Aleksej, più il medico E. Botkin, la cameriera, il cuoco e il maggiordomo, 11 persone in tutto. L’ordine è di far scomparire i corpi. Si pensa dapprima di gettarli nel pozzo della vecchia miniera detta ”fossa di Ganja”, che si trova nel boschetto detto “dei quattro fratelli”, a circa 8 chilometri a sud-est di Ekaterinburg. Ma la miniera da tempo abbandonata, ha i pozzi crollati e pieni d’acqua piovana. I corpi tornano a galla. Pertanto il giorno successivo, 18 luglio, i bolscevichi li recuperano per portarli in un’altra miniera più lontana e più profonda. Ma dopo circa 5 km il camion si impantana in una zona paludosa nel bosco cosiddetto “Porosenkov Log”. Volendo liberarsi al più presto del compito, i membri del gruppo scaricano i corpi, li irrorano con l’acido per renderli irriconoscibili e li seppelliscono sul posto.
I resti saranno ufficialmente rinvenuti nell’estate del 1991, ma gli esami autoptici rileveranno che nel gruppo mancano lo zarevic Aleksij e la principessa Marija. Per motivi ancora misteriosi i loro resti sono stati bruciati e seppelliti a parte. Verranno ritrovati poco distante nel 2007.
Sergej Čapnin è stato l’unico giornalista a presenziare, nel 2007, al ritrovamento delle spoglie di Aleksej e Marija. Riportiamo l’intervista.

Primo atto, 1998

Sergej, si ricorda come ha avuto inizio precisamente per lei questa vicenda?
Sì. Per me è iniziata nel febbraio del 1998. È allora infatti che è si è deciso di seppellirli (i resti delle nove persone rinvenuti nel 1991 vicino a Ekaterinburg – n.d.A.). Io lavoravo per l’Agenzia di informazione televisiva ortodossa. Prima del Sinodo, durante il quale si sarebbero dovuti presentare i risultati della commissione governativa e la Chiesa avrebbe dovuto dichiararsi sull’autenticità dei resti, sua Santità il Patriarca Aleksij mi ha chiesto di andare a Ekaterinburg e di fare un servizio dalla Fossa di Ganja .
È stata un’avventura… Ho telefonato alla diocesi di Ekaterinburg per chiedere se d’inverno si poteva arrivare alla Fossa di Ganja, se esisteva una strada, che tempo c’era. Mi hanno risposto che era tutto a posto, che potevo andare, il tempo era come a Mosca: mi sarebbero venuti a prendere, mi avrebbero trovato una sistemazione, una macchina, un autista. Nessuno dei miei conoscenti sapeva allora quanto fosse distante la Fossa di Ganja dalla città, quindi siamo partiti senza sapere cosa ci aspettasse.
Ed effettivamente in città il tempo era come a Mosca: noi avevamo solo degli scarponcini invernali, eravamo vestiti da città… Il secondo o il terzo giorno partiamo per la Fossa di Ganja. La prima cosa che ci ha insospettito è che non siamo partiti con una “Žiguli” o una “Volga”, ma con una jeep. Saliamo in macchina e i nostri compagni di viaggio hanno degli stivaloni da neve che arrivano sopra il ginocchio.

Partiamo. Tenga conto che fuori città la strada praticamente non esiste. È l’inizio di febbraio, la neve arriva alla cintura. La macchina tenta di viaggiare nei solchi a malapena tracciati nella neve, percorre un duecento metri nel bosco e poi si blocca definitivamente.
Il conducente dice: «Che fare… andiamo a piedi». Ma abbiamo la telecamera, il cavalletto – a quei tempi pesavano tantissimo – e siamo vestiti da città. I nostri compagni sono abituati, vanno avanti così velocemente che quasi non li vediamo più. Indossano degli stivaloni da neve con le suole larghe, camminano sicuri sulla neve ghiacciata, mentre noi affondiamo ora fino al ginocchio, ora fino alla vita. Io ho il cavalletto in spalla, il cameraman porta la telecamera, ci fa male la schiena, abbiamo i piedi zuppi.
Facciamo un chilometro, siamo entrambi stanchi morti. Cammino e penso: «Di certo ci becchiamo una polmonite, perché è inverno, fa freddo e noi siamo tutti sbottonati perché abbiamo caldo. Se anche ci arriviamo, alla Fossa di Ganja, che servizio riusciremo mai a fare?»
A un certo punto del bosco, siamo sbucati su una strada. Abbiamo capito che ci saremmo potuti arrivare in macchina dall’altro lato, sarebbe stato più vicino, ma i nostri autisti non ci avevano pensato.
Arriviamo a destinazione: c’è il bosco, si vedono enormi cumuli di neve. C’è una grande croce, fatta da due travi d’acciaio saldate rozzamente insieme. Si è poi scoperto che avevano dovuto mettere una croce di metallo perché quella di legno era stata incendiata da qualcuno, qualche mese prima.
Appena iniziato a girare, all’improvviso… veniamo avvolti da una tale leggerezza! La prima cosa che ci ha colpito è che tutta la stanchezza d’un colpo se ne era andata, come se avessimo percorso solo 300 metri su una strada asfaltata. È spuntato un topolino che ha tirato fuori da sotto la scarpa del cameraman una pigna e ha iniziato a roderla proprio vicino a noi. Il sole ha fatto capolino, la neve ha iniziato a scintillare: tutto intorno a noi c’era uno straordinario trionfo di vita. Un posto incredibile!
La Fossa di Ganja mi è rimasta nella memoria in questo modo. Probabilmente siamo stati la prima troupe televisiva ad arrivare fin là…
Per me è stato sconvolgente il fatto che il Sinodo non abbia riconosciuto l’autenticità dei resti. Ma nel profondo mi sono trovato d’accordo con questa decisione e ho anche scritto qualcosa a riguardo. Bisogna però dire che al tempo non conoscevo i risultati delle perizie nella loro completezza.
La Ekaterinburg della fine degli anni Novanta mi ha fatto una profonda impressione. Era una città deprimente. Anche a livello emotivo si sentiva che in quel luogo i delinquenti che, senza processo e senza un’indagine, avevano fucilato la famiglia imperiale erano stati per molti anni considerati degli eroi. Allora avevo solo voglia di fuggire di lì, anche per la vicenda della famiglia imperiale.

Secondo atto, 2007

Visitando Ekaterinburg qualche anno più tardi per tutt’altri motivi, ho chiesto ai miei conoscenti quale fosse il loro atteggiamento verso i resti. Mi hanno dato svogliatamente alcune risposte stereotipate. Ma quando dopo un anno sono tornato, ho scoperto che i miei conoscenti avevano fatto un enorme lavoro: avevano letto tutte le perizie, conosciuto storici, archeologi, etnografi e medici legali. E mi hanno portato subito a Porosenkov Log, il “Fosso dei maialini”.
Alla Fossa di Ganja si stava già costruendo a pieno ritmo un monastero, mentre qui il memoriale aveva un aspetto molto modesto. Si capiva che l’avevano costruito dei non professionisti che non avevano finanziamenti, ma erano mossi dal commovente desiderio di custodire il posto in cui erano stati ritrovati i resti.
E le prime sensazioni che ho provato a Porosenkov Log corrispondevano a quello che avevo provato qualche anno prima alla Fossa di Ganja.
Ho incontrato storici, antropologi, archeologi e geologi del luogo. Era chiaro che il quadro delineatosi dopo le prime analisi era molto vicino alla verità. La qualità delle perizie non dava risultati certi al cento per cento, ma tutte le altre versioni erano semplicemente inconsistenti, si sgretolavano.
Erano state scoperte nuove memorie, scritte da chi aveva preso parte alla fucilazione. Certo, in esse si notano alcune discordanze, ma sono tipiche della memoria umana: ognuno modificava i ricordi “a proprio vantaggio”, ometteva qualcosa, tentava di far passare le proprie azioni come più importanti.
La ricostruzione degli avvenimenti di quella tragica notte, però, era univoca: il tentativo di distruggere i corpi nei pozzi abbandonati della Fossa di Ganja non aveva avuto successo e i corpi erano stati portati in una miniera più profonda sulla strada maestra per Mosca. Per strada la camionetta si era impantanata e la squadra d’esecuzione, ormai stanca, aveva sepolto i corpi sotto uno strato di traversine a Porosenkov Log.
Come ho già detto, è un posto straordinario. Mentre alla Fossa di Ganja ci può stare un monastero e, in effetti, ci si può vivere, pregare, compiere pellegrinaggi, Porosenkov Log non deve diventare un posto di celebrazioni solenni: deve rimanere com’è, un luogo molto intimo. «I corpi sono stati sotterrati nel bosco vicino alla strada…». E questo bosco vicino alla strada deve essere conservato, non deve essere toccato.

Lei credeva che i resti ritrovati appartenessero ai figli dello zar?
Fino al 2007, fino a quando non hanno trovato i resti di Aleksej e Marija, ci si poteva credere o no. O meglio, si poteva in buona fede non crederci. Ma dopo il 2007…
Sono venuto a sapere della scoperta soltanto un paio di giorni dopo e sono arrivato agli scavi di Porosenkov Log dopo una settimana. Prima del viaggio sono andato dal Patriarca Aleksij e ho ricevuto la sua benedizione. Il Patriarca mi ha chiesto di scrivergli subito un rapporto al mio ritorno e mi ha detto che avrebbe deciso se pubblicare il mio reportage nel giornale “Cerkovnyj vestnik”.
Quello che ho visto ha suscitato in me trepidazione e venerazione. Un bosco ormai autunnale, le foglie dorate e uno scavo fresco fresco, poco profondo, a 70 metri dalla prima inumazione. I volti attenti, semplici, ma allo stesso tempo trionfanti, di chi partecipava ai lavori di ricerca.
Dopo aver scoperto a Porosenkov Log nel 1991 i resti della famiglia imperiale (erano state trovate 9 delle 11 persone fucilate – n.d.A.), le ricerche dei corpi di Aleksej e Marija erano continuate. Come si svolgono le ricerche? Il territorio viene suddiviso in quadrati e vengono scavati dei pozzi di esplorazione. Poiché i resti sono minuti e danneggiati dal tempo, la possibilità che su quell’estensione di terreno si possa trovare uno spazio di un metro e mezzo per un metro e mezzo è molto bassa. La superficie è molto ampia, si tratta di alcuni ettari.
Questi pozzi di esplorazione erano stati scavati per anni, ma non si è mai trovato niente. Non c’era una logica negli scavi, tranne il solito schema di ricerca. Più precisamente, ci si lasciava guidare dall’intuizione, che però portava continuamente fuori strada. A un certo punto i lavori erano stati abbandonati: si erano esauriti non solo i finanziamenti, ma anche la speranza. E la città incombeva da ogni lato: oltre lo steccato c’era una società di costruzione di strade, a duecento metri avevano già steso l’asfalto. Durante i lavori di costruzione potevano aver dissotterrato tutto senza neanche accorgersi dei resti…
E all’improvviso nel 2007 sono arrivati Vitalij Šitov e Nikolaj Neujmin, che hanno proposto di ricostruire gli avvenimenti secondo una logica totalmente diversa.
Si sono posizionati nella depressione paludosa dove nel luglio del 1918 si era impantanata la macchina con i corpi e hanno cominciato a guardarsi intorno. Secondo le memorie, i corpi erano stati bruciati. È chiaro che in un posto paludoso, su un terreno bagnato o in una pozza non avrebbero certo potuto accendere un fuoco. Quindi bisognava cercare un’altura, il posto più vicino che fosse all’asciutto. Sulla vecchia strada per Koptjaki, se si danno le spalle al passaggio a livello, questa collinetta si trova davanti, sulla sinistra.
Hanno deciso di rinunciare ai tradizionali pozzi di esplorazione, che richiedono un enorme lavoro, e di chiamare i ricercatori con le sonde. Fra giugno e luglio del 2007 i ricercatori hanno fatto in tutto sei uscite e il 29 luglio Leonid Vochmjakov ha trovato i resti! È stata una cosa incredibile. Anche se la logica di ricerca era giusta, la localizzazione era buona ed erano stati utilizzati strumenti di ricerca efficaci, si trattava lo stesso di un miracolo. I resti, infatti, erano pochissimi: in primo luogo si trattava dei corpi più piccoli e in secondo luogo erano stati cosparsi di acido e poi bruciati; a questo va aggiunto che erano stati sepolti a poca profondità: le variazioni di temperatura avevano contribuito a danneggiarli e anche quello che si era conservato era stato fortemente rovinato dal tempo.
Quando sono arrivato, davanti ai miei occhi sono stati rinvenuti, fra le radici degli alberi, i cocci dei recipienti che contenevano l’acido. Sono dei resti unici: l’acido veniva dal Giappone e quindi anche la ceramica è giapponese. Ogni cosa, in modo del tutto evidente, rientrava a costituire un unico mosaico.
Mi ricordo quale entusiasmo avvolgeva quelli che lavoravano. La sera tutti si riunivano attorno al fuoco, c’era un vero spirito di fratellanza… Ed è un luogo estremamente silenzioso, anche se si trova alla periferia di Ekaterinburg. Evidentemente il Signore l’ha conservato perché potesse essere scoperta la verità.
Così la Chiesa si è convinta che i resti esistevano. Tutti gli undici fucilati nella casa di Ipat’ev ora sono stati trovati. La logica di coloro che hanno nascosto i corpi è chiara, le memorie sono state rese pubbliche. E dopo questo non c’era più alcuna ragione di non riconoscere l’autenticità dei “resti di Ekaterinburg”.
Ho venerato per la prima volta questi resti-reliquie quando si trovavano nell’Ufficio di medicina legale di Ekaterinburg. Fra l’altro, nell’ufficio di Nikolaj Nevolin per molti anni c’è stata l’icona del santo zarevič Aleksej, realizzata dalle suore del monastero Novo-Tichvinskij.

È davvero una scoperta storica… Prender parte a una scoperta del genere è il sogno di ogni persona e certo non tutti sono così fortunati. Come giornalista le chiedo: mentre scriveva di questa notizia, ne dava i dettagli, si immaginava che fosse il ritrovamento del secolo e che da quel momento tutto sarebbe cambiato? Si aspettava risonanza e clamore nella società oppure non ne percepiva il carattere epocale?
Ci sono parecchi laici, sacerdoti, monaci e vescovi che da tempo sono sicuri dell’autenticità di questi resti. Per loro la scoperta delle reliquie di Aleksej e Marija rappresenta una grande gioia.
D’altro lato, chi non voleva riconoscerne l’autenticità continua a negarla anche oggi. La differenza è solo che ora il fatto di negarla non è giustificato in nessun modo ed è persino assurdo.
Poco tempo fa ho letto un’intervista all’archimandrita Aleksandr (Fedorov), rettore della Cattedrale dei Santi Pietro e Paolo a San Pietroburgo, dove sono sepolte le reliquie dei martiri della famiglia imperiale, nella Cappella di Santa Caterina. E lui continua a non crederci! Inoltre fonda le sue affermazioni su argomenti che nel 2015 è vergognoso rivangare, visto che sono stati confutati da tempo.
Per me rimane un mistero perché alcune persone trovino così difficile ammettere ciò che è evidente. Perché le “reliquie” molto meno certe di sant’Aleksandr di Svir sono state riconosciute con certezza, mentre alle reliquie imperiali viene fatta una vera guerra? Non riesco a dare una risposta a questa domanda. Mi sembra che il problema non siano le prove, ma le persone. Si sono trovate coinvolte in questa vicenda delle persone che non cercano la verità e non si pongono neanche questo obiettivo. Al contrario, da anni combattono contro la verità. La loro posizione è essere sempre contro. Sarà Dio a giudicarli.
E qui per me l’insegnamento principale è il fatto di essere chiamati a professare una fede personale. La nostra fede non è la fede della folla. La nostra fede non è la fede della negazione. La nostra fede è quella di coloro che hanno fame e sete di giustizia. Anche di quella storica. E se questa giustizia si svela attraverso le ricerche scientifiche, non abbiamo il diritto morale di negarle solo perché i risultati non ci piacciono.
Spesso diciamo: tra Chiesa e scienza non c’è conflitto, la scienza conferma il quadro biblico del mondo. Ma nel caso dei resti degli zar vediamo esattamente il contrario: c’è un conflitto molto profondo tra Chiesa e scienza. C’è davvero! Vediamo che la Chiesa non ha fiducia nelle ricerche compiute da scienziati di fama internazionale, scienziati che, tenendo alla propria reputazione, non produrrebbero mai un falso; questi scienziati pubblicano i risultati dettagliati delle perizie su riviste scientifiche internazionali, dove qualsiasi falsificazione sarebbe subito scoperta e confutata.
Ricordo quando nel 2008 è arrivato a Mosca il metropolita Ilarion, Primate della Chiesa Ortodossa Russa all’estero. In mano aveva le conclusioni del laboratorio di ricerche genetiche del Pentagono; mostrava quel documento e diceva con gioia: «Non abbiamo alcuna ragione di non credere!».
Le prime ricerche genetiche della fine degli anni Novanta sono entrate nei manuali di genetica perché sono state le prime ricerche condotte con successo su un DNA preso da campioni molto datati. È stata una pagina importante della storia della scienza del XX secolo e, fra le altre cose, è motivo di orgoglio anche per la scienza russa.
I critici, a nome della Chiesa, hanno posto alla commissione di ricerca governativa dei resti imperiali dieci domande. A nove di queste è stata data risposta praticamente subito. La risposta alla decima, quella riguardante i resti dello zarevič e della granduchessa, è arrivata dopo dieci anni, nel 2008.
A mio avviso, il problema non sta sul piano scientifico né storico. È solo un fatto di fiducia e sfiducia. Per qualche motivo hanno avuto paura di fidarsi.
Viene usato anche questo argomento: si dice che le reliquie non hanno prodotto miracoli. Dicono: che Dio si prenda la responsabilità, che faccia un miracolo e allora crederemo che si tratta di reliquie autentiche. Scusate, ma il Vangelo cosa dice? Cosa viene prima e cosa dopo? Prima viene la fede, poi il miracolo. Prima dovete credere ai resti, riconoscerli, e poi, se Dio lo riterrà necessario, vi manderà una conferma facendo un miracolo. Ma per prima cosa dovete agire voi: solo dopo potrete chiedere al Signore di agire.

Si ricorda quando ha capito che era tutto vero?
Subito dopo la canonizzazione dei martiri imperiali mi si è riproposta la questione dei resti. Sono tornato ad analizzare i documenti, mi sono immerso nei risultati delle perizie e ho parlato con chi li aveva riesaminati altrettanto attentamente. Ho fatto alcuni incontri importanti: con Nikolaj Nevolin all’Ufficio di perizia medico-legale di Ekaterinburg; con lo straordinario padre spirituale Vasilij Ermakov (c’è un video in cui ammette l’autenticità dei resti) e con alcuni vescovi della Chiesa Ortodossa Russa all’Estero.
Penso che sia Dio a guidarmi. Non a caso ho iniziato il racconto partendo dalle mie prime impressioni, parlando del mio cammino nel bosco d’inverno, mentre affondavo nella neve fino alla vita, senza sapere quanto bisognasse ancora andare avanti e cosa mi sarei dovuto aspettare, con la paura di ammalarmi; attorno tutto è estraneo e ti sembra che anche la natura sia contro di te. E poi arrivi alla meta e tutto è sole e pace. Mi rimarrà sempre in mente quella sensazione penetrante. E penso che non sia un caso che il Signore mi abbia portato a quel luogo facendomi affrontare una tale fatica: mi è servito per scoprire il valore di quello che lì ho visto.
Porosenkov Log è un posto santo quanto la miniera dei Quattro Fratelli. In entrambi questi luoghi la terra è impregnata del sangue dei martiri imperiali. Prego che Dio conservi intatto Porosenkov Log. Questo non è un posto per monumenti commemorativi pieni di retorica. Due croci, la strada e gli alberi… non serve altro.

Kominko

Julija Kominko

Giornalista, scrive su vari organi di stampa dell’ortodossia russa

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