3 Settembre 2022

Quei 300 liberati da Gorbačev

Vladimir Zelinskij

Sacerdote ortodosso (del Patriarcato di Mosca) è filosofo, teologo e traduttore. Dal 1991 vive in Italia, ha insegnato lingua e civiltà russa all’Università cattolica di Brescia e di Milano. Ha al suo attivo numerosi testi di teologia e spiritualità.

Sono passate solo poche ore dalla sua morte e sembra che su di lui si sia già detto e scritto tutto. Come se si stesse solo aspettando di riportare ciò che da tempo si sapeva, da anni si pensava. Ha portato la libertà. Ha distrutto. Ha riportato la libertà. Ha abolito la censura. Ha annunciato l’avvento di una nuova era. Ha organizzato un massacro a Vilnius, e non soltanto lì. Ha persino avvelenato il popolo coi surrogati della vodka, sempre lui.

Parrebbe che non ci sia altro da aggiungere. Ma se provassimo ad allargare il focus di un fenomeno già così vasto come Gorbačev, a osservarlo dalla prospettiva del paese che – si dice – avrebbe mandato in rovina? E che non era affatto l’ancestrale, immutabile potenza rurale russa, dove il potere da Brežnev passava senza colpo ferire ad Andropov, e da Andropov a Černenko, da Černenko a Grišin o Kunaev, e dove regnavano stabilità, solidità, pace, sia pure con qualche singolo difetto. In lontananza  c’era la guerra in Afghanistan, una guerra che sarebbe durata ancora a lungo, gli studenti davano l’esame di storia del PCUS sotto il ritratto di Lenin, nelle fabbriche per la gioia dei lavoratori si distribuivano sussidi alimentari, la TV celebrava trionfi nell’ambito del lavoro e dello sport, si festeggiavano le elezioni popolari del blocco dei comunisti e dei non iscritti al partito, e sotto la coltre di tutte queste cose, senza disturbare granché nessuno, frusciava il samizdat.., ed ecco all’improvviso dal nulla apparire Gorbačev, e…

Beh, se vogliamo essere precisi, non proprio «dal nulla». Gorbačev apparve dalle viscere dell’apparato del partito, e non sarebbe potuto apparire da nessun altro luogo. Ma «Dio può far sorgere figli di Abramo anche da queste pietre». Inoltre, questo fenomeno era già insito nell’apparato sin dall’inizio. Come, del resto, anche Chruščëv, al cui posto avrebbe potuto esserci Berija o chiunque altro.

Perché il sistema di possessione utopica e ideologica su cui Lenin e il partito costruirono la nostra URSS conteneva dentro di sé un contrappeso. L’abolizione della libertà di stampa nel dicembre 1917 recava già una remota promessa della glasnost’. Il GULag, costruito per cementare il sistema, covava la perestrojka che l’avrebbe fatto saltare in aria. Il paese fu mandato in rovina da Lenin e Stalin, che avevano edificato qualcosa che era destinato a crollare, e Gorbačev ha semplicemente dato la spinta finale, come continuo a ripetere sebbene la mia voce resti inascoltata.

Furono loro, i padri fondatori, a mettervi una bomba a orologeria, a rendere la sua atmosfera irrespirabile, a creare un vuoto tale da perforare anche il cemento armato. Il mito su cui si basava lo Stato era stato sfatato da tempo, la sua linfa vitale si era prosciugata, era come un albero secco senza radici, sarebbe potuto rimanere in piedi per molto tempo, ma anche una leggera brezza bastò per abbatterlo. Nel coro delle persone in lutto per il paese andato in rovina è diffusa la recondita convinzione che, se lo si congela per bene, come esortava Leont’ev, il ghiaccio non si scioglierà mai. Che la schiavitù è eterna. Sì, in passato era così, ma nel nostro secolo non più.

Come oggi, una restaurazione dell’impero a suon di missili e propaganda porta già inevitabilmente dentro di sé – anche se i tempi nessuno li conosce – il suo crollo.

Le Moskovskie Novosti del 22 febbraio 1987 riportano il briefing al ministero degli interni, durante il quale fu annunciata la liberazione dei primi «140 cittadini sovietici». (livejournal.com)

Tra tutte le imprese di Gorbačev, buone ma anche cattive, che tutti conoscono, ricordo quella più importante, che nessuno sembra aver notato. È la liberazione, a partire dal gennaio 1987, di tutti i prigionieri di coscienza incarcerati in base agli articoli 190 e 70, liberazione da lui ottenuta passando per il Politburo, probabilmente non senza difficoltà. Trecento persone in tutto, di cui quasi nessuno conosceva il nome.
Non ne conoscevamo i nomi, ma avvertivamo a pelle che, se la coscienza di qualcun altro era stata liberata, allora anche la nostra coscienza, quella di trecento milioni di persone, poteva, guardandosi intorno, strisciare pian piano fuori dalla tana. E cominciare a parlare, a dire ad alta voce… quasi tutto. No, «quasi» era di ieri, oggi è ormai «tutto». Ed esplose la valanga. Come poi sia caduta, e su chi, come si sia cercato di frenarla, è un’altra questione. Ma era esplosa.

«Personalità di spicco dello Stato e del partito». Giri stilistici di parole che danno immediatamente la nausea alle persone della mia generazione ed esperienza. Ma in questo caso, ed è ciò che più sorprende, la «personalità» era davvero una persona gentile, vivace e aperta, conservatasi miracolosamente tale nell’apparato del partito.

Ho un debito personale nei suoi confronti. Nel 1987 sarei dovuto sicuramente finire in carcere, come insisteva la funzionaria inquirente Leont’eva, che conduceva l’istruttoria del mio amico Feliks Svetov, arrestato nel gennaio 1985. Dopo Feliks veniva il mio turno. Ma dopo avermi fatto provare il suo soffio gelido questo fantasma si dileguò.

«Ringraziate per ogni cosa». Non suscitate la collera di Dio con l’ingratitudine.
Possa tu entrare nel Regno dei cieli, Michail! Per te la mia preghiera.


(foto apertura: livejournal.com)

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