6 Agosto 2021

Dante e l’Inferno: il peccato nella sua nudità

Ol'ga Sedakova

Poetessa, scrittrice e traduttrice moscovita, è docente alla Facoltà di Filosofia dell’Università Statale Lomonosov. Erede della tradizione della grande cultura russa, la sua opera è tradotta in numerose lingue e ha ottenuto riconoscimenti, quali il premio Solov’ëv e il premio Solženicyn.

Dante resta sempre per «il vasto pubblico» l’autore di un’unica cantica, l’Inferno.
C’è poco da fare, le immagini, i caratteri, le situazioni, i paesaggi infernali, l’intera scrittura dell’inferno di Dante (Purgatorio e Paradiso hanno tutt’altra scrittura) sono una cosa forte. Dopo aver partecipato a diverse conferenze per il giubileo dantesco, quest’anno, ho constatato ancora una volta che tra i nostri contemporanei solo l’Inferno trova una «continuazione creativa».
Si tratta veramente di una continuazione, ed è veramente creativa?

Inventare un gran numero di nuove scene macabre, distorte, irrazionali, orribili, morbose non significa affatto continuare Dante. È ancor più stupido che «continuare» Kafka inventando altre metamorfosi ancora più sgradevoli.

Innanzitutto l’Inferno di Dante non si situa nel nostro mondo, né potrebbe esserlo. La cosa più terribile di questo mondo non è ancora l’inferno. Dante lo sa con precisione. Egli ha trovato il modo di fare una splendida apologia dell’«al di qua» visto dall’Inferno, con gli occhi dell’Inferno. Le anime perdute ricordano le meraviglie della vita terrena, le più semplici: i colori, la luce, lo scorrere del tempo. Tutto questo non ce l’hanno più, ed ora capiscono quanto fosse bello. Ricordano ancor più quelle meno semplici come il pensare, cosa che non possono più fare poiché per pensare è necessario l’amore («amoroso uso di sapienza»). Ma nell’inferno l’amore non c’è, e definitivamente; questa è appunto la sua caratteristica principale. Le anime dell’inferno – come si dice all’inizio – non hanno nulla in cui sperare mentre l’uomo vivente, fintanto che vive, non abbandona la speranza fino all’ultimo respiro, per quanto sia tenebroso, mondano e «filosofeggi» (di questo parla una buona metà del Purgatorio). In più, sono anime private del registro alto della lingua, di tutto ciò che designa ciò che è buono ed elevato. Costoro non possono chiedere (neppure la dolce Francesca da Rimini).

L’Inferno dantesco incomincia in Paradiso, come ha osservato Paul Claudel. È in Paradiso che viene concepita l’idea stessa del viaggio dantesco attraverso l’Inferno. Lucifero doveva essere caduto da un cielo ben alto per produrre una tale voragine che arriva sino al centro della terra.

Senza il Paradiso – e di conseguenza, senza il concetto di peccato – un inferno come quello di Dante non può esistere. L’Inferno è la risposta al Paradiso, è il rifiuto del Paradiso.

Superfluo dire che ogni tormento infernale è un particolare aspetto del rifiuto di Dio, ossia del peccato; superfluo altresì parlare del grande sistema di questi rifiuti. Abbiamo visto tutti lo schema della voragine dell’Inferno e dei suoi gironi. Negli «inferni» attuali tutto viene confuso e non si può in alcun modo darne un’interpretazione. E poi, la forma dei tormenti infernali non è tanto il castigo per determinati peccati ma la semplice evidenza del peccato senza pentimento. Noi vediamo come sono «in realtà» invidia, menzogna, tradimento: come il tormento nella palude di fango, sotto la pioggia di fuoco, nel ghiaccio, eccetera.

E il tormento maggiore dello stesso viaggiatore Dante non è la vista dei tormenti in quanto tali, ma vedere «quando la nostra imagine di presso vidi sì torta».

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