20 Giugno 2018
Contro il falso orgoglio
Oggi si discute molto sul vero patriottismo, sull’orgoglio nazionale; Sergej Averincev diceva: «Penso che l’amore per un paese, come l’amore per una persona, si esprima nella sollecitudine, in un atteggiamento premuroso, e non nel dire a destra e a manca: “Mia moglie è la migliore di tutte. È la più bella”». Questo non è amore, è un’altra cosa. Penso che i veri servitori della patria siano quelli che fanno volontariato, che intervengono là dove nessun altro fa niente.
Mi sembra che il giusto atteggiamento verso il proprio paese debbano essere la responsabilità e il sentimento di vergogna. Io sento vergogna per i nuovi russi che fanno gli arroganti in Italia, anche se non li conosco, non fanno parte della mia cerchia. E poi vantarsi di che? Forse del fatto che il nostro Lev Tolstoj era un tipo molto speciale, ma tu che merito hai in questo?
Chesterton dice: «Non mi posso vantare neppure di Shakespeare, perché io personalmente non ho fatto niente per lui, non l’ho aiutato. Viceversa, quando leggo della condotta inqualificabile degli inglesi la cosa mi tocca, ne sento la responsabilità». Non bisogna vantarsi del proprio paese, non bisogna marciare compatti e cantare canzoni di guerra.
Detesto cordialmente la nuova ideologia. Prima c’era quella marxista, adesso ne hanno inventata un’altra patriottica. Di solito l’ideologia è sostenuta dalle persone più mediocri, che costringono i bambini a imparare poesie e canzoncine mediocri, penose da ascoltare, che offendono il senso estetico. Non può essere diverso perché un bravo poeta non potrebbe mai collaborare a inculcare l’ideologia.
Gli europei sono autocritici, cosa che da noi non esiste. In Europa vantarsi e darsi delle arie è considerato sconveniente. Non capita di sentir dire: «La nostra Inghilterra è così e così! La nostra Italia è così e così». Anzi si sentono di continuo critiche al governo e a se stessi: «Qui va tutto male, noi siamo pessimi. Siamo diventati così freddi, vuoti». E addirittura in Europa si aspettavano che venissero dalla Russia sofferente uomini che insegnassero a guardare nel profondo, che insegnassero la bontà, perché «noi ci siamo dimenticati tutto, viviamo troppo bene». Ma questa speranza è andata delusa.
Credo che i nostri diversi atteggiamenti dipendano dalla politica che in maniera assolutamente meditata viene portata avanti attraverso il sistema scolastico e i mass media. Da noi si propaganda l’idea della fortezza assediata, che siamo circondati da nemici; sono tornati in auge cliché assolutamente staliniani come l’«agente straniero». Si pensa che quanti sono contrari alla politica del governo non lo siano perché la pensano diversamente, ma perché qualcuno dall’estero li ha influenzati. La politica isolazionista è una scelta precisa presa dall’alto, ed è difficile controbatterla. Nelle scuole si insiste sullo studio della storia russa come se non ci fosse la storia mondiale. La Russia si può studiare come un caso particolare della storia generale, e non come un continente a sé, espunto dallo spazio comune.
Se studi pianoforte, suoni Glinka ma anche Clementi; se leggi, leggi sia Dickens che Lev Tolstoj. L’anima umana si è sempre formata a partire dal meglio e non in base a una selezione di tipo geografico. Come diceva Georges Nivat, la Russia dimentica che non vive per se stessa ma per il mondo, come ogni altro paese. Se noi ci vanteremo soltanto delle nostre imprese militari, non porteremo nessuna gioia a nessun altro.
Una cosa di cui possiamo vantarci è che tutti nel mondo leggono Tolstoj e Dostoevskij, che molti europei sono innamorati dei classici russi. Questo sì che è importante, e non le interminabili guerre e vittorie, quella storia militarista che si coltiva oggi. L’attività patriottico-militare è rimasta tale e quale a quella del periodo sovietico, non si riesce ad eliminare la componente militare.
A quanto ho potuto osservare, in Europa le persone si legano a realtà molto più limitate. Uno considera come patria la sua città, e così la ama. Non c’è bisogno di insegnare ad amare la patria reale, non la patria generica da mare a mare ma quella dove sei cresciuto, dove tutto è tuo. Da noi una volta si distingueva la grande Patria dalla piccola patria, adesso però della piccola patria non parla più nessuno. Invece l’uomo entra in contatto con la storia direttamente nella sua città, e ciascuno ama il luogo dov’è cresciuto.
La sindrome del portinaio
Così come una volta si parlava del mistero dell’anima russa, oggi si sente parlare di fatalismo e nichilismo come suoi tratti comuni. Quando a un russo raccontano qualcosa di bello, lui subito si mette a cercare il sottofondo negativo. È desolante, ma penso che lo dobbiamo sapere, così almeno possiamo osservare come agiscono in noi fatalismo e nichilismo.
Ho riflettuto molto sulla natura del russo contemporaneo, su quanto permane in lui di sovietico: sull’esperienza del passato, cosa ha lasciato, che tipo di uomo volevano formare, cosa ne è rimasto.
Io non lo sapevo ma esiste la «sindrome del portinaio»; all’epoca sovietica la gente temeva più del KGB (di cui tutti avevano paura), le donne delle pulizie e i portinai perché potevano urlare e insultare. La gente recepiva il potere non come servizio ma come possibilità di comandare, fare le bizze, avanzare pretese assurde. In qualsiasi paese europeo non ci sono divieti stupidi e di conseguenza uno non è costretto a mentire, e a inventarsi ogni momento come aggirarli.
Molti dicono che in Russia ci sono due popoli in uno: alcuni amano una cosa, altri un’altra. Alcuni amano Stalin e hanno veramente nostalgia del pungo di ferro. Faccio fatica persino a pensarci, e tanto meno riesco a spiegarmelo. Mi sembra orrendo, come se si adorasse il diavolo. Per quanto si cerchi di spiegare che durante la guerra il nostro paese non era solo forte ma anche abominevole per la vita del singolo, non c’è niente da fare. L’amore a Stalin non è razionale, è una specie di ossessione latente.
Vorrei tanto che le cose cambiassero! Ma temo che senza un’iniziativa dall’alto non ce la faremo.
Ricordo molto bene com’è iniziato il periodo di Gorbačev, com’è cambiata in fretta la gente. Dopo un paio d’anni quelli che avevano paura di dire una parola di troppo, aspettandosi sempre una delazione, hanno capito d’un tratto che i vecchi pericoli non c’erano più, ed hanno cominciato a parlare. La fine degli anni ’80 è stato un periodo straordinario! Non ho mai più visto tanta cordialità nel paese. La gente attaccava discorso sul treno, per strada, era schietta. Era caduto il giogo di questa paura e del diktat dall’alto.
Cos’è successo negli anni ’80? Perché tutti si sono messi a raccontare liberamente, anche di sé? Quante volte ho sentito dire: «Non posso dire che non sapessi niente, in effetti sapevo», e qui cominciavano a ricordare i fatti che avevano cercato di ignorare. Allora, oserei dire, veramente l’uomo medio era cambiato, non solo una certa avanguardia intellettuale. C’era la voglia di qualcosa di umano, di aperto. Adesso invece tornano a chiedere i lager. Gli ultimi anni, l’ultimo mandato presidenziale, mi danno l’impressione dell’accentuarsi dei divieti; mi sembra che sia in atto il tentativo di trovare e di inculcare dall’alto una nuova ideologia; sempre più cose vengono proibite, vengono smantellate molte organizzazioni. D’altro canto, mai come oggi si è sviluppata l’iniziativa, il volontariato. Questo è importantissimo, e le mie speranze sono legate proprio al fatto che la gente senta il desiderio di essere buona, così che a nessuno venga più in mente di dire: «se ci fosse Stalin».
Spero che si crei una massa critica. Come diceva Lotman, non tutti possiedono il comportamento storico, non tutti vivono nella storia, alcuni vivono nel loro appartamento e basta. Ma coloro che sentono la storia, percepiscono che è già iniziata una nuova epoca, l’epoca della civiltà planetaria.