30 Novembre 2018

La catastrofe e l’accordatore di pianoforti

Ol'ga Sedakova

Poetessa, scrittrice e traduttrice moscovita, è docente alla Facoltà di Filosofia dell’Università Statale Lomonosov. Erede della tradizione della grande cultura russa, la sua opera è tradotta in numerose lingue e ha ottenuto riconoscimenti, quali il premio Solov’ëv e il premio Solženicyn.

Il tempo trascorso dalla rivoluzione in qua non può essere pienamente descritto se non dalla parola «catastrofe», non c’è parola più adeguata. «Catastrofe» è il termine più comprensivo, perché include sempre qualcosa di sovrapersonale, quasi di cosmico, quasi non dipendesse neppure dagli uomini, figurarsi dal singolo; include crimini e sofferenze, e anche il democidio – parola che ho appreso di recente e che riguarda l’uccisione di un popolo da parte del proprio governo. Per altro, è un democidio al quale il popolo stesso ha fortemente partecipato, collaborandovi direttamente o accettandolo passivamente.

Dunque non c’è una parola migliore di «catastrofe» per questo tempo pieno di prove che ancora non è finito, e qui sta il punto cruciale: noi parliamo di «post-catastrofe», mentre in realtà ci siamo ancora dentro in pieno. Se non altro per il fatto che questo democidio oggi viene approvato da parecchi nostri contemporanei, e apertamente. Lo possiamo leggere e sentire; e ormai non suscita compassione o sentimenti di umanità. L’ho constatato leggendo i commenti alla manifestazione «Nomi restituiti» in piazza Lubjanka, dicevano delle cose orribili: «hanno fatto bene! dovrebbero ammazzare così anche voi…». Può darsi che sia una minoranza, che sia gente pagata, ma perché le persone arrivino a dire parole simili bisogna che sia successo qualcosa. Non è umano dileggiare i morti e quelli che li vogliono ricordare.

D’altro canto la compassione esiste, e non solo da parte di qualche decina di persone, è condivisa da una cerchia piuttosto ampia e crescente. È l’opposizione a Stalin, non a quello storico bensì a quello attuale. Infatti allora la gente poteva non conoscere il lato oscuro dell’uomo ma oggi sì, tutto è stato rivelato, ora la gente sa tutto e le va bene così; è un altro stalinismo: sono entusiasti della violenza e per questo amano Stalin: «Bisogna fargliela pagare a quelli…». Il fatto che il nostro passato non suscita pentimento ma anzi approvazione e orgoglio («siamo pronti a rifarlo!»), mi incute terrore. Gli esempi si moltiplicano a vista d’occhio, di mese in mese, nelle fonti di informazione pubbliche.
Qualcuno dice che la cultura, lo stile del nostro governo sono eclettici, si usa anche il termine «ibridi»: ci si può mettere dentro qualsiasi cosa, compreso l’imperatore Nicola II. Eppure questa cultura ufficiale non è una cultura amorfa, benché si componga di tanti elementi eterogenei, ha una sua linea ben precisa. Nicola I e Nicola II sono accettabili e se ne parla nelle mostre trionfalistiche che si organizzano, ma Alessandro II no, troppo democratico. Qui c’è un’evidente preferenza per la crudeltà, la tirannia, che incontrano la generale approvazione. Questa mentalità viene inculcata dalla televisione, e in altri modi, e tutto questo spaventa perché mostra una nuova crudeltà tra la gente. Una crudeltà, che ad esempio, non c’era negli anni di Brežnev. Nessuno allora avrebbe osato dire all’avversario politico: ti riduco in cenere radioattiva. Era inimmaginabile. Oggi invece queste cose vengono dette da figure istituzionali. E trovano approvazione.

Qualcuno dirà che non è poi tutto così reale, che la gente approva perché sa bene che sono solo minacce verbali e non ci sarà nessuna polvere radioattiva. Però noi vediamo crescere anche la crudeltà reale. Facciamo ancora il confronto col tardo socialismo, con l’epoca della stagnazione. Intendo parlare delle continue notizie che ci giungono sulle torture e violenze usate oggi dai tutori dell’ordine, che allora non c’erano, e non solo perché certe cose non si dicevano, ma perché la tortura dopo Chruščev era uscita dall’uso. Chi allora aveva paura di pagare per le proprie idee indipendenti non temeva la tortura, temeva il lager o il manicomio ma non di essere torturato. Era roba dei tempi passati. Oggi invece è una possibilità reale.
E dunque, si può dire che il nostro passato non solo non è passato, ma sta diventando il nostro presente.
Pertanto, quando parliamo di «catastrofe» non dobbiamo pensare a un lontano passato, perché la storia è in pieno sviluppo, siamo nella sua continuazione. È importante ricordare che noi parliamo dall’interno della catastrofe. Non è come dieci anni fa, quando si potevano ancora nutrire delle illusioni, essendo in una fase intermedia. Tutto questo è passato, ora stiamo andando in un’altra direzione, anche se parliamo di eclettismo, di condizione ibrida eccetera. In realtà la direzione è stata scelta. Il passato che continuamente viene scelto come modello stilistico è un passato più lontano di quello brežneviano, è il tempo di Stalin, il dopoguerra, l’ultimo periodo staliniano che si contrapponeva apertamente al resto del mondo. Questo è il modello che ci viene proposto. E chi tra noi partecipa in qualche modo alla vita pubblica si scontra con questo fenomeno, di fronte al quale si può rispondere, o tacere, o andarsene.

E in tutto questo cerchiamo di vedere la rinascita della persona; se guardiamo chi era restato uomo a quel tempo, dobbiamo parlare di alcuni singoli che per qualche motivo, nel graduale processo di crollo etico, sono riusciti a rimanere uomini. E tutti ci poniamo la domanda: come mai Solženicyn era diverso da tutti gli altri? Ma la stessa domanda possiamo porcela davanti a chiunque non portasse il marchio sovietico. Come mai? In che modo ci era riuscito?
Se guardiamo la cosa da questa prospettiva, non dobbiamo più parlare di «catastrofe» bensì di prova. Di un’epoca di grandi prove che gli uomini, ciascuno per conto suo, hanno attraversato. Avevano davanti una scelta e hanno dovuto prendere una decisione, e non una sola volta ma tante volte. Mi sembra che non a tutti si sia presentata questa possibilità di scelta; molti erano totalmente vittime della storia, di coloro che la storia la usavano senza dargli la possibilità di vedere nient’altro; c’era chi semplicemente non sapeva nulla, privo di qualsiasi informazione; chi non aveva nessun argomento da contrapporre a ciò che gli veniva raccontato. Ma noi vogliamo parlare di quelli che hanno avuto la possibilità di scelta; non saranno stati un’ampia cerchia eppure sono stati importanti, perché molto è dipeso da loro, pensate solo a Solženicyn, lui da solo cosa ha voluto dire. E in genere ogni persona che abbia detto «no».

Pertanto, vorrei richiamare l’attenzione di tutti sul carattere personale di questa prova, di questa scelta; cosa aiutava una persona ad affrontare la scelta: il caso, il destino? Per Solženicyn è stato l’intervento diretto del cielo. Io posso dire che le persone che ho avuto la fortuna di incontrare, e nelle quali ho immediatamente riconosciuto degli uomini diversi, liberi, avevano qualcosa da preservare, le cose più diverse per altro. Persino l’abilità dell’artigiano andava conservata. Nel periodo sovietico ricordo alcune persone che mi avevano colpito per la qualità del loro lavoro, perché allora la regola era lavorare molto male. Uno era un accordatore di pianoforti, un altro era un rilegatore… e quando chiedevo perché lavoravano così bene, mi rispondevano che avevano imparato l’arte dal nonno, e si sarebbero vergognati di fare male quel che sapevano fare. Anche questa era una scelta, amavano quel che facevano e non volevano essere come tutti.
In cosa erano speciali questi uomini che si distinguevano nella folla anche per l’espressione del viso?
Io penso che questo ci porti all’antico simbolo del «cuore», quello che nella Bibbia si chiama il «cuore di carne», contrapposto al «cuore di pietra». Il regime aveva detto apertis verbis che il cuore non c’entrava più, e che al posto del cuore c’era un motore. Molti facevano di tutto per non sentire questo cuore umano; anche Majakovskij ha calpestato la gola del suo stesso canto. La prima conseguenza della catastrofe antropologica è la perdita della comune sensibilità. La persona che veniva ad accordare il pianoforte aveva la sensibilità per capire quanto sarebbe stato brutto se avesse lavorato male.

Insomma penso che i tipi di prova e le cose da conservare possano essere i più diversi, e penso che fare memoria di questi uomini – ognuno qui potrebbe nominarne almeno uno – ponga una barriera. Quello che dico non riguarda solo il passato ma anche il nostro presente, e di conseguenza anche il nostro futuro. Perché noi siamo messi davanti a delle scelte e dobbiamo affrontare delle prove. Penso che un credente sia abituato a considerare la vita come un vaglio, come una prova del cuore nel senso biblico.