2 Settembre 2016

Dedicato al nuovo anno scolastico

Tat'jana Krasnova

Docente presso la facoltà di Giornalismo dell’Università Statale di Mosca Lomonosov, coordinatrice dell’Istituto di beneficenza per bambini “Una busta per Dio“.

Ho dovuto riscrivere un test.
Niente di che, un normale test che fa parte del processo didattico. Non era una questione di vita o di morte, nessuno rischiava la bocciatura e di andare sotto le armi, non era neanche un esame d’ammissione, gli studenti erano già tutti iscritti alla Facoltà.
Da quel test dipendeva poca cosa. E allora come mai ho dovuto riscriverlo?
Molto semplice. Sotto il naso dei miei ingenui colleghi, la maggior parte dei quali ha iniziato a insegnare ai tempi in cui gli appunti si prendevano a mano e c’erano le sale di lettura, i giovani in men che non si dica hanno scaricato le risposte del test da internet (dove pure si trovavano perché rubate, com’è ovvio), le hanno postate sulla propria pagina dei social e ci hanno fregati bellamente. Hanno vinto il primo round.
Al secondo, però, mi sono impegnata personalmente a fare un nuovo test, con vari giochetti di prestigio, e abbiamo vinto noi. Però i professori della mia amatissima cattedra hanno dovuto pronunciare le fatidiche parole, essenziali nel nostro processo educativo: «Spegnere tutti i cellulari e deporli nella scatola, gambe divaricate, mani dietro la testa, faccia al muro, non si può andare al bagno!».
E così abbiamo vinto.

Ma poi per alcuni giorni non mi ha abbandonato un inspiegabile senso di disgusto. In fondo ero stata in gamba: li avevo fregati, smascherati…
Diciamocelo, i nostri figli vengono su proprio bene. Sono belli, intelligenti, in gamba, creativi e dinamici. Ma noi adulti, di tutte le loro splendide qualità ne abbiamo scelta una in particolare, e abbiamo speso gli 11 anni migliori della loro infanzia a sviluppare questa magnifica dote di «farsi furbi».
E loro, guardandoci con beffarda ironia, si sono fatti furbi. Noi gli abbiamo spiegato che se c’è bisogno, si può frodare. Gli abbiamo inculcato l’idea che vince chi mostra più spocchia e sa «passare sopra gli altri come un panzer». Noi, col nostro esempio, abbiamo dimostrato che la «competenza» principale (i miei colleghi sanno di cosa parlo) è quella compensatoria. Cioè, in parole povere, quella di cavarsela sempre col minimo sforzo.
Noi abbiamo imparato a fargli i test. E loro hanno imparato a fregarci. Di anno in anno il test della maturità somiglia sempre meno a un esame e sempre più a un’operazione paramilitare, dove sei circondato da nemici e non puoi fidarti di nessuno. Né dei professori, tutti mascalzoni e venduti, né degli studenti, bugiardi inveterati e canaglie dal primo all’ultimo. Bisogna passarli al vaglio, rivoltarli come un calzino, scannerizzarli, silenziarli col silenziatore e farli andare al cesso solo accompagnati dalle Forze Speciali di polizia, nelle quali, per altro, non abbiamo nessuna fiducia.
Hanno fatto dell’esame di maturità uno spauracchio. Capisco che solo l’esame può dare all’infelice professoressa uno strumento per tenere a freno una banda di adolescenti sfrontati. Ma la paura è un pessimo aiuto nello studio.
E se la professoressa, invece, provasse magari a interessarli? Vi assicuro che è ancora possibile. Nonostante i nostri sforzi non sono ancora diventati un esercito di zombi, sono i nostri amatissimi figli.