14 Ottobre 2019
I processi di Mosca: qualcosa sta cambiando
La lettera collettiva dei sacerdoti in difesa delle persone ingiustamente arrestate ha smosso le acque di una situazione politica e sociale che a molti pareva senza vie d’uscita. Si riafferma la coscienza che qualcosa si può sempre fare…
Irrequietezza sociale, proteste diffuse, tanti nodi economici, politici, ecologici che stanno venendo al pettine e che in Russia minano la pace sociale. Di fronte a questo tra luglio e agosto, in occasione delle manifestazioni pacifiche di Mosca in merito all’elezione del sindaco, la tentazione delle autorità è stata quella di restaurare l’ordine con le cariche di polizia, gli arresti a tappeto e le condanne durissime.
Le manifestazioni sono state disperse dalle forze di polizia con interventi brutali, accompagnati da fermi per lo più immotivati. La manifestazione del 27 luglio, ad esempio, si è conclusa con 1373 fermati e 77 feriti da parte dei poliziotti. Poi, per 19 manifestanti il fermo si è tramutato in arresto con l’accusa di «disordini di massa» (art. 212): accuse palesemente abnormi, smentite da numerosi video in cui si vede che sono stati i poliziotti ad aggredire gli imputati, ma le testimonianze non sono state prese in considerazione, e per 7 arrestati sono già state pronunciate sentenze di condanna a pene che variano dai 2 ai 5 anni.
Danil Beglec, 27 anni, due figli, è stato condannato a 2 anni per violenze contro un poliziotto, mentre aveva semplicemente raccolto da terra gli auricolari di una persona fermata dalla polizia.
Ma questo tipo di interventi non ha funzionato, e lo si può constatare dalle cronache degli ultimi mesi; invece di fermare le proteste questo «muso duro» repressivo ha dato il via a una serie di ulteriori iniziative popolari di svariato tipo: petizioni, lettere collettive (come quella dei sacerdoti che in nome della loro fede invocavano il rispetto dei diritti umani e della giustizia), mobilitazioni di piazza (il 29 settembre a Mosca), assistenza legale gratuita, collette, gesti di solidarietà, controinformazione. E la cosa che esce dai nostri comuni schemi mentali è che queste azioni avvengono quasi sempre a prescindere dagli appelli alla mobilitazione lanciati dall’opposizione politica. Ma ancor più interessante e non così comune è il fatto che alla violenza della repressione si stia rispondendo con forme diverse dalla violenza e dalla pura contrapposizione.
È un fenomeno di resilienza macroscopico e al tempo stesso piuttosto inaspettato, dato il clima di fatalismo e sconforto che dominava fino all’altro ieri. Non è che tutta la società si associ al movimento di protesta, ma i numerosi gruppi, di giovani e meno giovani, che un po’ dovunque si assumono la difesa di persone ingiustamente condannate, che denunciano le illegalità o i disastri ecologici fanno da catalizzatore, ed elevano il livello della protesta sul piano di una iniziativa civile costruttiva. Senza bisogno di slogan e aggressività.
Ormai non è più una questione solo moscovita, perché in tutto il paese ci sono da difendere persone arrestate con false accuse e detenute al di là dei termini di legge; ogni città o regione ha i suoi «prigionieri di coscienza», come ormai vengono comunemente chiamati; tanto per ricordare uno dei casi più noti, a Petrozavodsk, in Carelia, c’è lo storico Jurij Dmitriev, scopritore delle fosse comuni di Sandormoch, che dal 2016 è detenuto per reati sessuali: è stato processato, assolto e nuovamente arrestato. Decine di persone hanno affrontato il lungo viaggio fin là per dargli sostegno morale durante le udienze del processo.
Parlare di «prigionieri di coscienza» richiama alla memoria l’epoca del dissenso, quando gli oppositori del regime costituivano una comunità sui generis, una «polis parallela» sostenuta da forti vincoli di solidarietà. Che i russi degli anni 2000 ne siano al corrente o no, quello che fanno oggi si pone nello stesso solco: ogni volta che scoppia un nuovo caso si trova chi si prende a cuore la persona perseguitata, crea comitati, lancia petizioni, organizza collette, presenzia nelle aule di tribunale per dare sostegno morale.
Certamente non sono metodi politici ma squisitamente personali e civili; per altro, le strategie proposte da politici come Naval’nyj, le loro denunce e le loro accuse non sono state fin qui più efficaci. Anche dei dissidenti si diceva che i loro gesti erano troppo individuali e poco strutturati per incidere sulla macchina dello Stato, ma sicuramente possiamo dire che oggi in Russia la catena solidale sta risollevando il clima morale, facendo percepire che la solidarietà è possibile, e che non è un’idea ma una cosa concreta.
I gesti collettivi e le «esposizioni personali» si moltiplicano proprio nel momento in cui diventano più rischiosi.
Così è stato anche il 26 settembre 2019 nell’aula del tribunale del quartiere Basmannyj di Mosca, dove si è celebrato il processo contro Aleksej Minjajlo, 34 anni, ortodosso, uno degli arrestati alla manifestazione del 27 luglio. Quel giorno c’era una piccola folla a sostenere l’imputato, non solo di amici ma di amici degli amici. E – novità mai vista – c’erano anche dei sacerdoti in talare.
Si è creata spontaneamente una sorta di rete di sostegno tra la gente chiusa nell’aula senza poter uscire, e quella chiusa fuori senza poter entrare: scambio di acqua, generi di conforto e informazioni. Alla fine la corte ha liberato Minjajlo direttamente in aula dopo un quarto d’ora di camera di consiglio, scagionandolo «per non aver commesso il reato»: la libertà invece della pena prevista da 3 a 8 anni. Tutti si sono chiesti come mai un gesto così liberale da parte dei giudici.
Ksenija Lučenko, che era presente, ha colto lo spirito dell’accaduto:
«Bisognava rassegnarsi alla sensazione dell’assurdo: la maggioranza dei convenuti, testimoni e altro non è stata ammessa nella sala, ha seguito il dibattimento dal corridoio, grazie ai messaggini che erano più veloci dei media tradizionali. Alla fine l’effetto cumulativo del nostro assurdo stare lì si è trasformato in una vittoria, dal caos è nato l’ordine».
I più realisti si sono chiesti se veramente i giurati in camera di consiglio abbiano deciso secondo coscienza o se, piuttosto, non sia arrivato dall’alto l’ordine di usare clemenza. È ben possibile che sia vera la seconda ipotesi, ha risposto Nikolaj Epple, e tuttavia
«se non si fosse fatto del chiasso, com’è stato fatto per tutto settembre, non lo avrebbero mai rilasciato. Si fa pressione su un birillo, e il birillo ne smuove un altro».
A. Minjajlo con il cartello «l’amore è più forte della paura!».
Ritratto di un giovane russo
Se prendiamo Aleksej Minjajlo come «manifestante tipo» possiamo vedere in lui il percorso seguito da molti ragazzi dell’era post sovietica: giovane imprenditore, attivista civile dai primi anni 2000, è «osservatore volontario» nei seggi elettorali; un giornalista di Novaja gazeta lo ha definito «fin troppo buono» perché andava alle manifestazioni con cartelli del tipo «l’amore è più forte della paura!».
Ma non si tratta di un ingenuo buonista, anzi, nella sua esperienza c’è molta dura concretezza. La vicenda di Minjajlo illustra come si può scoprire che cos’è la società civile. Cresciuto in una famiglia «dove non si parlava di politica», Aleksej era all’inizio fiduciosamente putiniano, poiché gli sembrava di avere di fronte la risposta autentica ai problemi della Russia. Ha cambiato idea quando ha cominciato a immergersi nella realtà del paese occupandosi di brefotrofi in provincia, lontano dai riflettori puntati sulla capitale.
Ha scoperto così l’universo di corruzione alimentato dall’establishment politico, aggravato da una legislazione che penalizza le attività umanitarie e dai tagli economici alla sanità: «Ho toccato con mano la differenza tra la Russia della televisione e quella reale». Da quel momento è diventato un attivista civile, però non un arrabbiato che odia il governo ma un cittadino convinto di poter fare qualcosa per il bene comune, a partire dal desiderio di far rispettare la legge.
Minjajlo ha spiegato in un video in cosa consisteva il suo lavoro per raccogliere le firme a sostegno dei candidati indipendenti alle elezioni del sindaco di Mosca (quelle stesse firme che il Comitato elettorale ha respinto come invalide, dopodiché sono cominciate le manifestazioni di protesta):
«Ho seguito personalmente tutto il processo: raccoglievo le firme e smascheravo i truffatori, identificavo le firme fasulle… Sono assolutamente convinto che tutti i candidati democratici hanno raccolto onestamente le firme e devono essere registrati. Ho visto coi miei occhi questo lavoro gigantesco. E ho visto pure che questo lavoro è mancato totalmente tra i candidati governativi… Penso che la nostra forza stia nella verità, nell’amore, nella resistenza mite e calma».
Tat’jana Krasnova, anche lei una cittadina che si è rimboccata le maniche per risolvere i problemi della gente (nel suo caso raccogliendo fondi per cercare di risolvere i problemi dei bambini malati), ha visto appunto qualcosa di nuovo nella figura di Minjajlo, nel supporto che ha ricevuto dai confratelli (compresi i preti) e nel successo ottenuto: lo ha definito un segno della forza della fede:
«Il cristianesimo è una gran cosa, fratelli miei. Col cristianesimo si può far tutto, e niente è impossibile. …Quante volte hanno già seppellito questa “organizzazione”, le hanno inchiodato addosso il cartello con scritto “corporazione”, ed ecco che alcuni fanno un passo fuori dai ranghi e dietro di loro c’è la Chiesa. E le porte dell’inferno non la potranno vincere. Grazie per la fede e la speranza».
Indubbiamente vero. Ma c’è anche di più accanto alla fede: c’è il risveglio civile, o meglio c’è l’espandersi sociale di un fermento religioso antico, che dopo essersi liberato a fatica dall’ateismo di Stato oggi si libera progressivamente anche dalla tentazione di ridurre la fede e l’esperienza cristiana a un’ideologia religiosa.
In questo clima cresce una laicità libera e promettente, che non aspetta ordini dall’alto e non si rassegna al peso delle circostanze che sembrerebbero non permettere nessuno sviluppo positivo. C’è un’umanità dignitosa e responsabile, come si coglie splendidamente dal discorso che Minjajlo ha voluto fare al processo, richiamando indietro il giudice che già si stava ritirando in camera di consiglio:
«Sarà forse la decima volta che mi trovo in un’aula di tribunale. Ho assistito ai processi di alcuni amici, in passato. Ed ogni volta, quando il giudice usciva dalla camera di consiglio, leggeva la sentenza a voce bassa. Ed io lo so il perché: perché il giudice si vergognava. Ma io credo nel meglio che c’è nelle persone. Credo che quando lei ha scelto di diventare giudice credesse nella giustizia. E lei ora vede davanti a sé una persona innocente, che è stata tenuta sotto inchiesta per due mesi senza alcun fondamento; non mi hanno interrogato, non mi hanno mostrato alcun video, niente di niente. Di solito il giudice inquirente dice: “Non sono io che decido”. Ma persino nei campi di concentramento si può non dipendere da nessuno… Lei è un giudice federale, ha un certo potere. Faccio appello alla sua coscienza. Spero che quando uscirà dalla camera di consiglio potrà leggere la sentenza a voce alta, onestamente e senza che nessuno si vergogni».
Marta Dell'Asta
Marta Carletti Dell’Asta, è ricercatrice presso la Fondazione Russia Cristiana, dove si è specializzata sulle tematiche del dissenso e della politica religiosa dello Stato sovietico. Pubblicista dal 1985, è direttore responsabile della rivista «La Nuova Europa».
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