12 Maggio 2022

Voci dall’Ucraina / 3 / Comunione sotto le bombe

Marta Dell'Asta

Dalla voce di un sacerdote ortodosso abbiamo raccolto storie di dolore e di incredibile carità. Gli stereotipi delle nostre abitudini cadono, ma risorge la vita.

Stare a tavola con un sacerdote ortodosso ucraino che tra poche ore prenderà un volo per tornare a Kiev, dà un peso particolare a quello che si dice e che si ascolta.

Padre Georgij Kovalenko, 54 anni, è un tipo vivace e deciso, che nella sua vita ha affrontato diverse battaglie, non ultima quella di lasciare il grembo della sua Chiesa madre, il Patriarcato di Mosca in cui era cresciuto e si era formato spiritualmente, per abbracciare la nuova Chiesa ortodossa di Ucraina, sotto l’ala del Patriarcato di Costantinopoli. Un salto non da poco, se si pensa che fino al 2014 era stato portavoce ufficiale del metropolita di Kiev Vladimir, ma lui credeva fermamente che così si sarebbe facilitato il rinnovamento dell’ortodossia, e sarebbe nata un’unità più ampia e meno segnata da preoccupazioni politiche. Non a caso il gruppo di sacerdoti che ha lavorato dall’interno del Patriarcato di Mosca e ha spinto perché la nuova Chiesa vedesse la luce si chiamava «Ortodossia aperta».

Voci Ucraina

Padre G. Kovalenko.

Ora la battaglia però è un’altra, si tratta della guerra che è piombata all’improvviso, sconvolgente. Lui dice che nulla sarà più come prima, né la vita personale né quella della Chiesa.

Padre Georgij parla, parla a lungo senza quasi interrompersi, tanto che dimentica persino di mangiare; il suo racconto è come un fiume in piena, episodi, storie di persone, riflessioni che ha bisogno di comunicare perché – lo si vede – vorrebbe che capissimo di più, che ci immedesimassimo. Se pure è possibile.

Lo zio di campagna

Racconta che poco dopo l’invasione è tornato di corsa dagli zii nel suo paese d’origine, vicino a Konotop, nel nord-est del paese; un paesino di poche case immerso nel bosco, un luogo fiabesco dove ha trascorso l’infanzia. Gli zii però non volevano andarsene lasciando lì tutto quello che avevano accumulato nella vita; poi finalmente, quando i primi missili hanno cominciato a cadere più vicino (il paese si trovava proprio sulla direttiva dell’invasione, in direzione di Kiev) la zia ha ceduto, accettando di sfollare, ma il marito non ne ha voluto sapere: c’era la casa, l’orto già seminato, 5 capre di cui una prossima al parto. No, non poteva andarsene…

Così lo hanno lasciato lì, pensando che tanto, a rigor di logica, non c’era alcun motivo per bombardare e occupare un paese così insignificante, senza impianti, caserme né fabbriche… Subito dopo padre Georgij ha lasciato l’Ucraina perché è stato invitato a Ravenna a celebrare la Pasqua per i profughi che stavano lì. Ma negli ultimi giorni della settimana santa la situazione al villaggio è precipitata: bombardamenti a tappeto, incendi, lo zio si è chiuso in cantina senza poter uscire neppure a prendere l’acqua, per giorni e giorni, da solo. I parenti si sono mobilitati ma ormai nessuno poteva più raggiungerlo nella zona occupata, solo lui poteva trovare il coraggio di uscire dal nascondiglio e chiedere ai russi di lasciargli prendere un treno.

Nel pomeriggio del sabato santo ortodosso, il 23 aprile, mentre si preparava a celebrare nel Duomo di Ravenna, padre Georgij ha ricevuto una telefonata dallo zio, che si trovava su un treno diretto a Kiev, ma sembrava un’altra persona, non il 72enne giovanile, arguto e pieno di energia che conosceva, bensì un uomo confuso e senza forze. Gli ha detto che il paese non esiste più, completamente raso al suolo. Quello era tutto il suo mondo e adesso lui non solo non aveva più niente, ma non era più niente, non sapeva che fare e dove andare; era fragile come un bambino che ha smarrito i genitori. Per ore padre Georgij, al telefono da Ravenna, lo ha calmato e guidato a distanza; gli ha spiegato a che punto scendere, dove andare, nella grande stazione di Kiev, ad aspettare qualcuno che si sarebbe occupato di lui; lui che la capitale non l’aveva mai vista in vita sua. Con altre telefonate padre Georgij ha poi chiesto a degli amici di andare a prelevarlo. «Mio zio è un uomo distrutto – ci ha detto alla fine, – chissà se si riprenderà mai. Chissà dove potrà tornare».

voci Ucraina

Distruzione nei pressi di Gostomel’. (Unian)

Fine della parrocchia, ma…

La vita, ormai, è sconvolta per tutti, non resta niente dei ritmi di prima, delle vecchie forme. Anche la sua parrocchia più che sconvolta è proprio venuta meno, nel fuggi fuggi generale. Ma, dice padre Georgij, se la parrocchia come istituzione si è sfasciata, non è venuta meno la comunione in Cristo, anzi, le circostanze estreme hanno reso necessaria una vicinanza più essenziale con tutti, specie con quelli che alla parrocchia non si sarebbero avvicinati mai.

E racconta che la casa in cui abita, a Kiev, fa parte di un complesso di otto palazzi tutti uguali, ciascuno con 150 appartamenti; in questo formicaio impersonale e praticamente impermeabile alla fede, lui non aveva conoscenze, gli era capitato di entrare a benedire uno solo di quelle centinaia di appartamenti. Ma dopo l’inizio della guerra non ci sono più state persone lontane, di quelle cui un tempo lui stesso non avrebbe prestato attenzione. Così, quando a un vicino hanno comunicato che il figlio era morto con altri soldati su una camionetta colpita dall’artiglieria russa, padre Georgij si è offerto di accompagnarlo sul posto.

La camionetta era sulla strada, ancora piena di cadaveri, e mentre padre Georgij pregava in disparte, il papà sollevava i corpi uno a uno alla ricerca del figlio, «ma i volti erano irriconoscibili anche da vicino». Padre Georgij continuava a pregare, e il papà si è messo a verificare allora le braccia dei cadaveri, perché il figlio portava un grosso orologio, almeno quello doveva essere riconoscibile. Ma non l’ha trovato… E mentre padre Georgij pregava sempre, il papà ha chiesto in giro e ha saputo che due soldati ancora vivi erano stati portati all’ospedale. Alla fine hanno ritrovato il ragazzo, ferito ma vivo, e quel papà, pensando a un miracolo, si è accorto che in quella tremenda giornata aveva sempre avuto vicino il nuovo amico; ormai tra loro c’è un legame forte come la vita. «Questa non è la mia parrocchia – ha concluso padre Georgij – ma è sicuramente una comunità, anzi, la vera comunione. È un’esperienza nuova per me».

Marta Dell'Asta

Marta Carletti Dell’Asta, è ricercatrice presso la Fondazione Russia Cristiana, dove si è specializzata sulle tematiche del dissenso e della politica religiosa dello Stato sovietico. Pubblicista dal 1985, è direttore responsabile della rivista «La Nuova Europa».

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