20 Marzo 2022

Voci dall’Ucraina. Se odio, perdo la guerra

Kristina Ursuljak

Il 24 febbraio mattina è uscita di casa con uno zainetto, senza sapere dove andare. L’odissea di Kristina, profuga ucraina in Italia, ci testimonia che chi odia, perderà questa guerra.

Puoi raccontare brevemente del lavoro che facevi, della tua città e la tua fuga quando è iniziata la guerra?
Abito a Kiev, lavoro in una scuola, insegno teatro ai bambini in un laboratorio di recitazione, in più collaboro con un teatro di Kiev che mette in scena degli spettacoli presi soprattutto da autori russi. Nei tre mesi prima che scoppiasse la guerra c’era molta preoccupazione tra la gente, tutti dicevano che avrebbe potuto esserci una guerra, si discuteva su cosa si sarebbe dovuto fare, ma io non davo ascolto a questi particolari, ero impegnata con il mio lavoro.

Molti si comportavano come te?
Sì, in molti preparavano le cosiddette «valige di emergenza», comperavano medicine, si procuravano valuta straniera, però credevano che una guerra vera e propria non sarebbe stata possibile nella nostra epoca; tutti noi del teatro abbiamo continuato a lavorare e a recitare fino all’ultimo, non abbiamo cambiato repertorio.

Il 24 febbraio mi sono svegliata perché ho sentito dei colpi in lontananza; all’inizio ho creduto che fossero dei fuochi d’artificio, o dei colpi a salve, anche se erano le 5,20 di mattina, oppure i camion della nettezza. Poi c’è stata una seconda esplosione e subito dopo una conoscente mi ha telefonato che bombardavano. Era iniziata la guerra. Mi sono alzata, vestita, ho preso la borsa con i documenti e le medicine. L’avevo preparata la sera del 23, per caso, come se me lo sentissi. Così il 24 ho preso le mie cose e ho deciso di scendere nel metro perché era il posto più sicuro.

Da lì ho telefonato ai miei genitori, ai miei amici, la notizia che era scoppiata la guerra si era diffusa molto velocemente. Gli amici che abitano in centro sulla riva destra del Dnepr (mentre io abito sulla sinistra) mi hanno detto di andare da loro perché in centro era più sicuro. Infatti se i ponti venivano fatti saltare sulla riva sinistra si poteva rimanere isolati. Quando sono arrivata li ho trovati in cucina con indosso il casco da sci, in pigiama, nessuno sapeva cosa fare. Abbiamo individuato il rifugio antiaereo più vicino, e poi è incominciato l’allarme aereo. Abbiamo passato la prima notte nel metro perché sembrava più sicuro.

Il 25 abbiamo deciso di partire per l’Ucraina occidentale. Dovevamo andare in luoghi sicuri, almeno in campagna, da conoscenti, da amici, e dovevamo farlo subito; prima pensavo di fare in tempo a tornare nel mio appartamento per raccogliere qualcosa, ma quando ho saputo che di fronte alla mia casa nella notte era caduto un missile e l’aveva distrutta per metà, ho rinunciato. Per fortuna mia mamma era a casa di amici.

se odio perdo la guerra

Folla di gente alla stazione di L’vov in attesa di prendere il treno.

In stazione permettevano già di salire sui treni predisposti per l’evacuazione, non si sapeva bene che tragitto avrebbero fatto, ma sapevamo che erano gratuiti. C’era una folla immensa, moltissimi stranieri, perché loro avevano incominciato a scappare per primi. È arrivato il treno e tutti sono saliti di corsa, tutti avevano molti bagagli, bambini, animali. Per miracolo siamo riusciti a intrufolarci su un intercity. Appena siamo entrati, ho pensato: «Dio mio, non ce la faremo mai», perché il viaggio sarebbe durato otto ore e noi eravamo tutti in piedi, intorno era tutto pieno di bagagli, cani e gatti; c’erano vecchi, giovani, molti adulti con bambini; gli stranieri erano particolarmente spaventati perché non capivano cosa stesse succedendo. Quando il treno è partito abbiamo cominciato a organizzarci, abbiamo sistemato ordinatamente i bagagli, in modo da potercisi sedere sopra a turno; gli animali e i bambini venivano tenuti in braccio.

Quello che mi ha colpito e rallegrato è che ci siamo sostenuti e aiutati molto a vicenda per tutto il tempo, senza panico né angoscia: tutti offrivano gli uni agli altri acqua, cibo, pastiglie, un posto a sedere. Mi ha colpito molto questa solidarietà, quest’unità, perché capivamo che eravamo tutti nella stessa barca e bisognava essere il più possibile solidali gli uni verso gli altri: se avessimo cominciato a insultarci, sarebbe stata la fine. I primi giorni non ho fatto che piangere, però non di disperazione, ma nel vedere l’incredibile solidarietà tra di noi; come se la gente avesse raddrizzato le spalle davanti alla sciagura. Una volta a L’vov, ci siamo spostati da un’amica in un villaggio in provincia di Rovno, dove mi sono riunita con la mamma. Mio papà invece era rimasto in provincia di Poltava. Si trovava lì perché avrebbe dovuto subire un’operazione agli occhi che però non è stata più possibile. Allora mia mamma ha deciso di raggiungerlo attraversando mezza Ucraina in treno, e grazie a Dio è arrivata sana e salva.

Mi ha colpito molto, quando siamo arrivati a L’vov, l’enorme numero di persone che ci dava aiuto: chi era pronto ad ospitarti, chi a dare un passaggio gratuito in auto. I taxisti portavano la gente al confine in cambio di un’offerta: «Datemi quello che potete. I soldi adesso non mi servono, vi porto io». Ho visto con i miei occhi come la gente era pronta a dare aiuto secondo le sue possibilità: tutti quelli che potevano si inserivano subito in questa catena di solidarietà, ci siamo visti molto uniti in quel momento. Nei primi giorni mi sono sentita particolarmente orgogliosa degli uomini che vedevo attorno a me, era gente pronta a morire: mi sembravano degli Atlanti, degli eroi che portano gli altri sulle spalle e si preparavano a difendere la casa e il prossimo fino all’ultimo. Sia a Kiev che a L’vov ho visto persone come queste. I miei amici del teatro sono rimasti per difendere Kiev. Sono moltissimi i volontari che mettono a disposizione le proprie automobili, per distribuire cibo, medicine, aiutare gli anziani, gli animali. Molti ristoranti hanno cominciato a preparare pasti caldi per i militari. Letteralmente nel giro di pochi giorni ci siamo organizzati, a tutti è evidente che adesso questa è la cosa più importante. Forse è cambiato qualcosa dentro di noi, perché si è manifestata un’ondata di amore, abbiamo incominciato a scrivere l’un l’altro: «ti voglio bene», perché avevamo paura di non fare in tempo a dirlo a tutti. Scrivevamo: «Cosa posso fare per te? Come posso aiutarti? Ti voglio sempre bene».

Perché poi hai deciso di andare comunque all’estero?
Innanzitutto me lo hanno chiesto i miei genitori, che mi hanno detto: «anche se un missile ci ucciderà, saremo sulla nostra terra, a casa nostra e saremo insieme, perciò non abbiamo paura». Invece erano molto preoccupati per me: ho un carattere battagliero e temevano che potessi ficcarmi nell’epicentro dei combattimenti. Anche i miei amici hanno insistito tutti perché lasciassi l’Ucraina, dicevano: «se vinceremo, poi bisognerà tornare e ricostruire le città». Perciò era bene che mi mettessi in salvo. Inoltre, io mi fido molto di quello che sento dentro; ho notato che fin dal primo giorno risuonava in me una voce interiore molto forte che mi guidava. Era come se fosse l’angelo Custode, o forse un meccanismo interiore di sopravvivenza, non so. Quando mi sono svegliata il 24 febbraio, ho capito che dovevo andarmene subito. C’era anche la possibilità di fuggire assieme a degli amici di Cherson, ma la città è stata attaccata tra le prime, non aveva più senso aspettare le donne e i bambini bloccati lì. Così alla fine sono venuta in Italia, però appena sarà possibile li andrò a prendere al confine…

se odio perdo la guerra

Aiuti al confine polacco.

Come sei uscita dal paese? In treno, in macchina…
È una storia incredibile: sono andata in macchina, perché i treni adesso sono molto affollati, la gente non fa che aspettare in stazione e ci vogliono giorni prima di partire. Inoltre, da L’vov all’Europa praticamente non si può prendere nessun treno, c’è una calca terribile. Il confine polacco è uno dei più ricercati, perciò quelli che ne hanno la possibilità, cercano di passare attraverso la Slovacchia o la Romania: è più veloce e anche più sicuro. Io sono arrivata a piedi al confine con la Polonia la mattina presto, alle 8, ma c’erano donne, bambini, molti lattanti, che stavano in piedi in coda da sette ore. Faceva molto freddo, avevano organizzato delle piccole postazioni per riscaldarsi e offrire cibo e bevande calde. Io sono stata fortunata, pur con tante difficoltà, ci ho messo solo sette ore. In Polonia, dal centro di smistamento profughi, partono auto private e bus per l’Europa in tutte le direzioni; autobus che portano a Varsavia, a Cracovia, e molte automobili che portano subito in Svizzera, Francia, Germania: sono tutti volontari. Dicono ad esempio: «Io vado in Svizzera e ho quattro posti», e la gente sale. Io ho degli amici in Polonia, che sono venuti a prendermi e mi hanno portato a Cracovia; di lì poi ho preso l’aereo per l’Italia.

Come mai hai deciso di non restare in Polonia?
Volevo tanto riunirmi con Caterina e Petja Z. che stanno in Italia, avevo tanta nostalgia. Non so, non me la sentivo di restare in Polonia. Sono grata ai polacchi, ma sentivo che volevo andare in Italia, dai miei amici più cari.

Quali sono adesso i tuoi sentimenti verso i russi in generale? Sei già riuscita a chiarire i tuoi sentimenti su questo punto o non ancora?
Prima del 24 febbraio ho sempre avuto buoni rapporti con gli amici della Russia, l’anno scorso sono anche andata a recitare a Mosca e volevo iscrivermi lì alla facoltà di regia. Ho sempre detto che politica e livello umano, stanno su piani diversi. Mentre ero in Russia ho capito che i russi sono persone molto infelici, perché vivono nella paura. Dopo una settimana che ero arrivata a Mosca sentivo già paura per la mia sicurezza, avevo la sensazione di non potermi permettere di dire qualsiasi cosa e comportarmi come facevo a casa, ad esempio. Perché in Ucraina io posso criticare il presidente, esprimere opposizione, mentre in Russia sentivo che non potevo permettermi di dire qualcosa sul presidente e sulle autorità, ed era meglio non esporsi proprio. Però ho continuato a insistere sul fatto che esiste un piano diverso, umano. Anche quando ero a Kiev ho recitato in un teatro di lingua russa, io stessa sono russofona ma nessuno mi ha mai discriminato per questo. Inoltre, fino all’ultimo ho messo in scena i classici russi: ho lavorato a spettacoli in russo, ad esempio su Marina Cvetaeva, e se a qualcuno non piaceva, era libero di non venire a teatro.

Subito dopo l’inizio della guerra, invece, ho pensato che i russi erano dei grandi vigliacchi. C’è stato un momento di astio, di grande odio, perché tu vedi che bombardano la tua casa, quelle dei tuoi amici, vedi che i tuoi amici vanno a morire e tu non sai se li rivedrai e come andrà a finire, e non capisci il perché. Perché siete venuti a casa nostra? È la nostra terra. Non ci dovete salvare, io vivo una vita bellissima, faccio un lavoro che mi piace, ho una casa, ho delle prospettive, guadagno bene, se il mio governo ha dei problemi, cercheremo di risolverli da soli… Siete venuti qui a denazificare: state tranquilli che con i nazisti ce la vediamo noi. Sentivo un enorme astio. Poi sono incominciate le sanzioni e si è iniziato a isolare la Russia, e dentro di me, grazie a Dio, ho sentito che non bisogna odiare.

Cristina se odio

Kristina in Italia.

Il momento di svolta è arrivato quando ho pensato che se mi ritengo cristiana devo comportarmi da cristiana, e allora mi è sorta la domanda: ma è questo che ha insegnato Cristo? Quando dice di amare il proprio nemico non dice qualcosa di astratto, e alla Madonna che stava sotto la croce Cristo ha detto di perdonare… Allora, se sono cristiana, devo scoprire in me questo amore, questo perdono. Perché se odio io perdo questa guerra. Cioè, se comincio a odiare le persone e smetto di amarle, vinceranno loro, vincerà il male.

Quand’ero a Cracovia sono andata ad Auschwitz, perché mi sembra che il periodo del GuLag e dei lager nazisti sia stato il momento più disumano, e al tempo stesso più umano della storia. E quando mi sono trovata lì ad Auschwitz, ho provato un grande dolore, ho pensato che anche in Russia muoiono bambini, persone, e ho scorto il legame storico tra tutte queste cose. Una mia conoscente in Russia, ad esempio, ha dei figli che sono in cura per il cancro e usavano dei medicinali europei, che ora non potranno più comprare, così questi bambini resteranno senza cure. Anche loro sono bambini, persone, così adesso non provo più odio, provo un grande dolore e il desiderio che tutto questo finisca … che succeda qualcosa e finisca questo governo in Russia. Non voglio che nessuno muoia, mentre adesso muoiono sia qui che là, ed è terribile.

Vedo che ora fra i miei amici c’è molto rancore e odio verso i russi, soprattutto tra i giovani; un odio che prima non c’era. Dal 2014 molti avevano «addomesticato» l’odio semplicemente chiudendo la porta: nel Donbass ci sono i russi, che vivano pure come vogliono a casa loro. Ma adesso che sono entrati nel nostro paese, che l’aggressione si è manifestata apertamente, spero che vinca comunque l’umanità. Non è vero che siamo un popolo solo. Noi non siamo fratelli, siamo due paesi diversi, e avendo vissuto sia in Russia che in Ucraina, capisco molto bene la diversità di mentalità, ma desidero che la gente viva. Che ognuno nel suo paese viva come vuole, come succedeva fino ad adesso.

Ma tu hai speranza?
Certo. Non solo spero, ma sono sicura che l’Ucraina resisterà e vincerà. Non so quale sarà il prezzo di sangue e di vittime, di distruzione da pagare, ma non ho alcun dubbio che resisteremo e vinceremo.

Non pensi che la cosa migliore sarebbe arrendersi? Per evitare di spargere altro sangue, come dicono certi pacifisti?
Forse questa è una domanda che si può fare in astratto. No, il mio popolo non può arrendersi, perché in tutta la nostra storia, per moltissimo tempo siamo stati senza una patria, inglobati nell’impero russo, poi nell’URSS. Adesso è un momento in cui non ci si può arrendere: l’avranno vinta solo arrivando a distruggere tutto il popolo, ma perdere la nostra terra ormai non si può più. Non potremo più far parte della Russia… Non è possibile, nel vero senso della parola.

Perciò capisco che o la Russia distruggerà tutto il paese, farà terra bruciata, e allora non ci saranno più né gli ucraini, né l’Ucraina, o resistiamo. Vedo che è dura, che fa paura, è doloroso, non si capisce perché stia succedendo questo, perché muoiano tante persone, ma nessuno è disposto ad accettare, perché noi lottiamo per la nostra casa. In 28 anni è la prima volta che ho sentito un legame così forte con la mia terra, che è la mia casa.  Io amo molto l’Europa, ho viaggiato, ma voglio tornare a casa, non sono disposta a restare a vivere qui. Anche se qui avete un livello molto più alto nel campo della medicina, dell’istruzione, della cultura, voglio tornare a casa, a Kiev, costruire il mio teatro, educare i miei figli e vivere nella mia terra; adesso si è risvegliata in me la sensazione di essere legata alla mia terra.

Riesci a pregare in questo tempo e a sperare che la situazione possa cambiare?
Prego in continuazione. In vita mia non sono mai stata in una condizione di preghiera costante come adesso: recito le preghiere, o prego con parole mie, quando prendo sonno, quando mi sveglio. A Kiev pregavo durante gli allarmi aerei, nel rifugio. Tre o quattro giorni prima dell’invasione ho sognato che era cominciata la guerra, io ero per strada e vedevo gli aerei che bombardavano la città, e ricordo che nel sogno pregavo il Padre Nostro perché non mi restava altro da fare. E adesso mi stupisco del cambiamento delle persone, ad esempio mia mamma aveva litigato con mia nonna, e da anni avevano rotto completamente i rapporti. Ma in questi giorni mi ha chiesto, se succedesse qualcosa, di prendere con me la nonna; in più mia mamma ha incominciato a pregare. Ho pensato che è una grande vittoria di Cristo se mia mamma dopo quindici anni è riuscita a superare l’offesa e il dolore, a pensare alla nonna, e a cominciare a pregare. È un miracolo. Adesso vedo che moltissimi che non pregavano hanno cominciato a farlo. Anche se molta gente nutre come un sentimento di offesa e rancore verso Dio, e si chiede a cosa serve discorrere con Lui… E tuttavia è come se si fosse voltata da questa parte, e anche questo è un cambiamento importante.

Io continuo a pregare soprattutto per le persone care, per quelli che sono rimasti là nelle città assediate, sotto i bombardamenti. A un certo punto ho pregato così: bene, Signore, adesso sono in Italia, al sicuro, qui non c’è nessun pericolo: per favore manda il mio Angelo Custode là tra i carri armati … che li visiti. Là c’è più bisogno di lui. A un certo punto capisci che l’unica cosa su cui ti puoi reggere è la preghiera.

Kristina Ursuljak

Nata a Dnipropetrovsk nel 1993. Vive a Kiev, dove insegna teatro alle medie. Frequenta un corso di regia teatrale e recita in una piccola compagnia.

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