23 Febbraio 2022

Il dolore dei russi

Marta Dell'Asta

I tank russi sono entrati nelle due regioni ucraine proclamatesi indipendenti, e questo ha prodotto nella popolazione una nuova pesante lacerazione. Se la maggioranza (forse) è sensibile al patriottismo ufficiale, una parte cospicua dei russi vive una dolorosa estraneazione in casa propria. Molti oggi protestano in nome della verità, dell’antica fratellanza, della dignità dell’altro. Sono voci di profondo dolore.

Il politico d’opposizione Lev Šlosberg ha fatto presente che tutti i deputati di tutte le frazioni alla Duma hanno votato coralmente a favore del riconoscimento delle repubbliche di Lugansk e Doneck; del resto, ricorda anche, l’elezione degli attuali deputati, nel 2021, aveva visto il trionfo assoluto del partito di Putin: «Ora nel nostro parlamento non si trova neanche un singolo deputato che non stia dalla parte del presidente». Da parte sua, un altro oppositore Dmitrij Gudkov, riparato all’estero l’estate scorsa, sostiene che tra la Russia e il regime di Putin c’è un’enorme differenza, un vero abisso.

Le due posizioni non si escludono; certo il governo russo sa usare abilmente la propaganda per agganciare le masse, ma da almeno un decennio si vede che i non allineati in Russia sono tanti, consapevoli e spesso anche pronti ad esporsi, come dimostra la realtà dei nuovi prigionieri politici, diventata purtroppo cronaca quotidiana, ben prima e ben oltre il caso di Naval’nyj. Il fatto, poi, che molti detenuti siano oggi classificati come «politici» dipende dal governo stesso, che ha politicizzato qualsiasi forma di posizione indipendente.

Ma come insegna la storia del dissenso sovietico, il peso globale delle minoranze diversamente pensanti non è direttamente proporzionale all’infima percentuale che rappresentano nel tutto.

La forza del pensiero libero sta nella verità che persegue (e non pretende di possedere o di imporre a nessuno), nel fascino della dignità e nell’apertura. Il guaio è che per penetrare il conformismo e la paura, e per cambiare il clima sociale, aprendo degli autentici spazi di pacificazione, il pensiero indipendente ha da percorrere strade imprevedibili, probabilmente lunghe.

L’unica cosa che si può fare oggi è dar voce a queste singole persone; dar voce a un punto di vista diverso che non soccombe alla logica geopolitica, di contrapposizione e di potenza. La voce degli uomini liberi in Russia.

il dolore dei russi

Sull’Arbat, Mosca. (facebook)

Olga Sedakova:
«Cari amici ucraini,
non saprei neanche nominare qui tutti coloro cui sono legata da un’antica amicizia e una lunga collaborazione. E cari anche tutti gli altri che non ho mai conosciuto,
sappiate che io vi auguro di tutto cuore una piena autonomia, la piena libertà di scegliere il vostro futuro, e la libertà dalla terribile minaccia che proviene dai vostri vicini, cioè da noi.
È triste dire «noi» in questo frangente.
Io aborro i piani e i propositi che le autorità non condividono con noi né hanno discusso con noi, e che hanno come esito la possibilità di espandere le azioni belliche in terra ucraina.
Come molti, moltissimi di noi, considero questi propositi un delirio e un crimine. La vergogna del nostro paese».

A questo gemito del cuore ha immediatamente risposto il professor Konstantin Sigov, da Kiev: «Grazie infinite cara Ol’ga! Probabilmente c’è anche un altro “noi”. Ti abbraccio».

Il «noi» cui accenna Sigov ha in comune diversi sentimenti, in questo momento drammatico, e tra questi sentimenti non è l’indignazione a prevalere ma piuttosto la vergogna e, sorprendentemente, l’amor di patria autentico.

il dolore dei russi

Tomsk. (facebook)

«No alla guerra. – scrive Sergej Brun – Io amo moltissimo il mio paese. E mai penserei di innalzare una bandiera diversa. Solo, ora non ci resta che pregare per chiedere una sola cosa: che cessi il fuoco. Che russi, ucraini, abitanti del Donbass (di qualsiasi appartenenza) vivano in pace e non permettano mai a nessuno di metterli l’uno contro l’altro. Che l’ideologia non prenda il posto della storia, e che la storia non ci impedisca di amare e apprezzare ciò che è comune e personale, ciò che ci apparenta e ciò che ci rende unici, dissimili, discordanti. No a questa guerra insensata».

«Non lo sopporto – scrive l’italianista Ol’ga Gurevič – Non ho parole. Ma non si può tacere. Né pensare ad altro».
Non si può tacere, dice, ma quanto vale un singolo «no alla guerra»? In tanti si pongono questa domanda, e qualcuno ha ricevuto anche una risposta, come Andrej Desnickij:
«Molti dicono che è tutto inutile, parlare, non parlare… Ieri mi ha scritto su facebook una donna che nel 2014-2015 aveva cercato di dimostrarmi che Putin aveva perfettamente ragione, e aveva battuto tutti. Era molto ostinata ma non aggressiva, non attaccava personalmente. Ed ecco che mi scrive: “Le faccio le mie scuse. Io non ci credevo. Evitavo di leggere i post e non entravo nelle discussioni. Davvero non ci credevo. Ahimè”.
E dunque, quante persone hanno cambiato opinione senza che noi lo sappiamo? So che la mia pagina viene letta più o meno regolarmente da duemila persone. Il che non è poco. Non sono certo io solo a far cambiare loro idea su quanto accade, ma anche io. Lo so anche per altre vie.
Non state zitti. Il silenzio somiglia troppo all’approvazione della viltà.
Non cavatevela con generiche parole spirituali, anche loro somigliano troppo al resto.
Siamo ben di più del 14%, siamo almeno la metà ad essere stufi delle buffonate. E il nostro caro governo non fa che rendere le nostre parole più comprensibili».

il dolore dei russi

San Pietroburgo. (facebook)

Un dramma collettivo

«Siamo in molti a non aver dormito queste ultime notti – scrive Svetlana Panič, – ad aver guardato ogni ora e anche più spesso le ultime notizie, a vivere in ansia perpetua per gli amici a Kiev, Doneck, L’vov, Char’kov, Marjupol’, a ribellarci – ciascuno a suo modo – contro questa guerra assurda. Le parole più usate sono: vergogna e paura. È quasi impossibile pensare ad altro…
Quando si verifica qualcosa di vergognoso, che grida vendetta al cielo, è naturale piangere e morire di vergogna. Ed è inutile discutere con chi pensa che non sia successo nulla, che si sente “superiore a queste cose”, che piantato comodamente sul divano dirige le vite umane come pedine sul campo geopolitico…

Inutile spiegare a chi è convinto che “il popolo russo approva l’invasione in Ucraina” e che protestano solo quattro emarginati, che nel paese dominato dalle forze dell’ordine chiunque rischi di scendere in strada con un cartello, chiunque rischi una protesta con la parola o il gesto, lo fa in nome di centinaia, migliaia di altri, perché l’eroismo lo si può chiedere solo a se stessi.

Non ha senso cercar di spiegare perché in un mondo a compartimenti stagni le parole non arrivano. È ben più importante altro. Noi che oggi soffochiamo dalla vergogna, che non troviamo parole per esprimere il dolore, siamo molti, moltissimi. E siamo insieme».

A quanto sembra queste parole non sono solo un auspicio ma un fatto, basta seguire gli hashtag di facebook #нетвойне, #нетвойнесукраиной, che di ora in ora stanno raccogliendo migliaia di messaggi, proteste, grida di disperazione.

Continua la Panič: «Ci aspetta una vita molto difficile, piena di vergogna e di ansia. Bisognerà risolvere ardui problemi morali, essere più esigenti con noi stessi, resistere continuamente al cinismo, non solo quello esterno, ma quello che si intrude nella mente e nel cuore.

Però c’è anche dell’altro: la condivisione che in tempi come i nostri acquista davvero i tratti della grazia, la musica, i libri, la parola e il pensiero liberi. E c’è la speranza, che sembra non reggersi su nulla. Ci sono la vergona, il dolore, le lacrime come reazione sana al male. E finché è così, siamo vivi. C’è il riso, come reazione sana all’idiozia di Stato, mezzo per scacciare la paura.
Ma soprattutto, siamo molti e siamo insieme; e finché potremo reggerci gli uni agli altri il male non sarà onnipotente. Supereremo anche questo disastro.

Noi che ci diciamo cristiani abbiamo talmente svalutato la Sua parola, banalizzato le nostre parole a Lui, che ora possiamo mostrare la fede solo con la nostra persona, senza retorica religiosa. A quella nessuno crede più, e giustamente. È colpa nostra se abbiamo trasformato la parola di misericordia in una melassa da baciapile».

Il contributo dei cristiani si vede oggi in queste coscienze sensibili e straziate, segno di una testimonianza essenziale che corrisponde esattamente a ciò cui richiamava domenica 20 febbraio all’Angelus papa Francesco: «Mai il Signore ci chiede qualcosa che Lui non ci dà prima. Quando mi dice di amare i nemici, vuole darmi la capacità di farlo. Senza quella capacità noi non potremmo, ma Lui ti dice “ama il nemico” e ti dà la capacità di amare».

Vadivostok

Vladivostok. (facebook)

La politica del diritto e della giustizia

Come mostrano queste testimonianze, non è solo col linguaggio della contrapposizione e dell’odio, del ricatto che si può affrontare la situazione, vediamo infatti che la propaganda martellante del sentimento di assedio, come dice Viktor Sudarikov, costituisce la base ideale della guerra, anche mondiale: «Un incubo da cui mi vorrei svegliare».

Ma questo incubo va guardato e capito per trovare una via d’uscita. E questo tentativo non è soltanto auspicato, qualche passo si sta già muovendo, con nuove proposte; così sostiene il filosofo ucraino Michail Minakov, capace di leggere i fatti in modo pacato e senza revanscismi: «Nell’Europa orientale una pace duratura è sempre stata connessa con l’infrastruttura dell’impero russo o sovietico. Non abbiamo mai avuto l’esperienza di una pace stabile. E dopo la dissoluzione dell’Unione Sovietica, trent’anni fa, abbiamo dovuto creare un nuovo sistema di pace, di politica estera, degli Stati nazionali. Abbiamo dovuto creare delle democrazie e dei mercati liberi. Insomma, dovevamo creare un mondo nuovo dal nulla, non sapevamo niente della democrazia, della libertà politica e della libertà economica, e tutto ciò che abbiamo creato non era stabile. …Tuttavia abbiamo creato un’infrastruttura non per la pace, ma per la zona grigia».

La presenza di quattro territori secessionisti che hanno prodotto conflitti locali ha impedito ad alcuni paesi di poter aderire alla NATO e all’Unione Europea. Nel 2014 questo modello è stato usato anche per l’Ucraina, con il conflitto nelle repubbliche autoproclamate di Doneck e Lugansk. «Da allora – dice Minakov, – le relazioni tra Russia e Ucraina sono state al minimo storico. Due popoli una volta amici sono ora pieni di sospetti l’uno verso l’altro. Ci sono 20.000 morti, ci sono persone che si uccidono a vicenda, e questa esperienza non permette di vivere in pace.

Anche le élite di Mosca e di Kiev sono state elette, selezionate, create in questi otto anni nell’ottica dell’ostilità. Nemmeno i nostri leader sanno come si fa a vivere in pace. Tutto ciò significa che dobbiamo trovare la volontà di ricreare un’infrastruttura della politica, della vita statale in Europa orientale, basata su una pace giusta, su una pace fondata sul diritto, e comunque dobbiamo dare inizio a una seconda Helsinki.

Una conferenza che dovrebbe creare una infrastruttura politica per l’Europa orientale, non solo per la Russia ma anche per il Caucaso del Sud, per la Moldavia, la Bielorussia e l’Ucraina. È un obiettivo enorme, non so come si potrà realizzare, ma dobbiamo cominciare, perché l’alternativa è continuare con la prosecuzione sempre uguale di ciò che è iniziato nel 2008 con la guerra in Georgia, cioè con la proliferazione della guerra nell’Europa orientale, che poi si estenderà anche all’Europa centrale e occidentale, perché non siamo isolati, viviamo insieme nello stesso continente, ed è importante capire e trovare la volontà di realizzare una nuova Helsinki».

Di fronte all’apparente vittoria della realpolitik o della contrapposizione dura, c’è dunque chi richiama l’idea di una politica alta, capace di affrontare il problema in maniera globale, e soprattutto a partire dall’uomo. Il giornalista Sergej Parchomenko denuncia l’obbrobrio di una situazione «in cui il destino di un pezzo di terra altrui, assieme al destino di 4 milioni di persone vengono decisi per mezzo di provocazioni e occupazioni violente… Biden ha giocato la sua guerra sulle pagine dei giornali, sui siti, nelle sale dei briefing e nelle conferenze stampa. Putin l’ha trasferita a sangue freddo sul terreno reale e sulle persone vive.

E queste vite umane? I destini di queste famiglie? L’umanità? La giustizia?».

A questa domanda non retorica bisogna rispondere per e con i russi, gli ucraini, per il bene di tutti. Per scongiurare una guerra che riguarda tutti.

«Cari amici ucraini, perdonate se non siamo riusciti a fermare tutto questo…
Povera patria nostra, e poveri noi tutti, a prescindere da dove viviamo. È una disgrazia comune. Signore, che vergogna!» (Svetlana Panič).

 

Marta Dell'Asta

Marta Carletti Dell’Asta, è ricercatrice presso la Fondazione Russia Cristiana, dove si è specializzata sulle tematiche del dissenso e della politica religiosa dello Stato sovietico. Pubblicista dal 1985, è direttore responsabile della rivista «La Nuova Europa».

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