27 Giugno 2024

Un giornalista «estremo» e la sua cronaca di una devastazione

Miriam Zanoletti

Un libro che raccoglie le inchieste quasi impossibili che negli anni il reporter bergamasco Giorgio Fornoni ha svolto nella Russia profonda.

Di fronte alla violenza attualmente dilagante in Russia, il reporter Giorgio Fornoni, spinto dal desiderio di capire come si sia arrivati a tanto, riprende appunti e diari di diverse inchieste da lui realizzate a cavallo degli anni 2000, raccogliendole nel nuovo libro Putinstan. Come la Russia è diventata uno stato canaglia per la casa editrice Chiarelettere. Il risultato è una panoramica della complessità sociale, politico-economica e culturale del paese, con i capitoli che spaziano dalle indagini sulla gestione delle scorie nucleari e del gas e sulla produzione segreta di armi chimiche e biologiche, all’illustrazione della meravigliosa varietà culturale e paesaggistica incontrata durante un viaggio sulla Transiberiana, dalla narrazione degli orrori storici del GULag e delle più recenti guerre cecene, alle interviste a persone dalla grande integrità morale, come Grigorij Pomeranc, Anna Politkovskaja e Dmitrij Muratov.

Un giornalista «estremo» e la sua cronaca di una devastazione

Pp. 300, € 19,50.

Il titolo provocatorio lascia intendere lo stile di Fornoni, che ha sempre sfidato ogni tipo di divieto per poter documentare in prima persona le vicende più impenetrabili di «questa semisconosciuta geografia della disperazione e del male assoluto» (p. 9), con l’obiettivo di portare allo scoperto i punti dolenti nascosti prima che «la situazione diventi irrimediabile, prima che la diplomazia, la verità e la pace diventino, come sempre le prime vittime di un conflitto» (p. 11) Animato da questo spirito, il reporter bergamasco, «non cronista di passaggio, ma vero testimone della storia» (p. VII), come lo definisce Milena Gabanelli nella prefazione, ha cercato di fare breccia nel «muro di disinformazione e di buio» (p. 6) spingendosi nei posti più pericolosi, grazie alla rete di preziose relazioni di cui ha fatto tesoro negli anni.

Ripercorrendo le tante storie documentate, emerge un inquietante filo rosso di crescente nazionalismo, menzogna e repressione che collega indiscutibilmente gli orrori di ieri e di oggi, aiutando a comprendere meglio come si sia arrivati alla guerra in corso. Una parabola rimasta purtroppo per lo più ignorata, nonostante le instancabili denunce dei giornalisti locali, pronti a lottare per la libertà e la verità anche a costo della propria vita. Infatti è proprio nella distorsione della realtà che ha origine tutta la violenza descritta: «Quando si arriva a pensare che una certa idea dia la facoltà di violare ogni legge morale, e che si possa dividere l’umanità in veri uomini e non uomini» (p. 89), come spiega il filosofo Grigorij Pomeranc nell’intervista che costituisce il cuore del libro di Fornoni. E «quando la violenza incomincia a essere usata con piacere, senza più alcun limite per arrivare a ottenere qualsiasi scopo, quello che avviene è demoniaco, che si creda o non si creda al diavolo come essere reale». (p. 90 Grigorij Pomeranc).

Questa menzogna, esattamente come la conseguente violenza, non è esplosa dal nulla, ma è cresciuta poco a poco, tanto da essere spesso sottovalutata dai più. Inizia infatti con la mancata condanna ufficiale e rielaborazione dei crimini sovietici, e con il silenzio e l’occultamento della dolorosa esperienza del GULag. Già nel 2006, al tempo del suo incontro con Fornoni, il fotografo Jurij Brodskij aveva potuto pubblicare un libro documentario sul lager delle isole Solovki solo all’estero, riuscendo a raccogliere testimonianze fotografiche poco prima che le tracce venissero distrutte dagli stessi funzionari statali: c’era persino un’istruzione speciale del Kgb «che stabiliva cosa bisognava rispondere alle domande dei turisti che visitavano il campo» (p. 67).

La stessa negazione della storia viene documentata da Fornoni anche durante i suoi servizi sui lager di Karaganda, l’Alžir, e della lontana Kolyma, dove l’unica memoria che rimane di chi ha sofferto è un misero cimitero dimenticato, senza croci né nomi, solo «migliaia di paletti conficcati nel terreno gelato» (p. 57). Di fronte a tutto ciò non stupisce che il governo sia arrivato a sancire la chiusura dell’organizzazione Memorial nel 2022. Come spiegava Pomeranc già nel 2001, «tutti loro hanno interesse a non rivangare il passato, vogliono creare l’unità popolare sulla base dell’orgoglio nazionale della vittoria. E la vittoria viene collegata, anche se è un falso storico, alla figura di Stalin. Per questo smascherare tutti gli orrendi misfatti di quel regime, distruggere l’immagine “dell’architetto della vittoria”, mette in dubbio il nostro orgoglio per questa stessa vittoria» (p. 101).

Un giornalista «estremo» e la sua cronaca di una devastazione

G. Fornoni. (liberainformazione.org)

In queste zone il silenzio non avvolge però solo il passato, bensì continua a nascondere l’esistenza totalmente degradata di chi non trova alternativa alla vita in Siberia, come Ivan, una delle tante «persone umili e profondamente umane» (p. 60) incontrate da Fornoni nei suoi viaggi: «Ora nessuno pensa a noi. (…) Siamo come in un grande lager senza filo spinato, ma non possiamo fuggire perché non abbiamo i mezzi. (…) In generale qui non funziona niente: i libri scolastici non ci sono, scuole e ospedali sono in rovina, perché non c’è nessun tipo di aiuto, le medicine mancano, tutti sono demoralizzati. Eppure Mosca dice che tutto è normale, come a dire, non c’è alternativa» (p. 54).

Una denuncia che riecheggia anche nel capitolo dal tono folcloristico che racconta l’incontro con la popolazione nomade dei Čukči, divisi internamente tra tribù delle renne e dei cacciatori di balene, stanziati nella zona dello Stretto di Bering e oggi sempre più abbandonati a loro stessi e lentamente derubati della loro identità.

E quando la verità minaccia di farsi spazio, ecco che la menzogna si trasforma in repressione violenta, come testimoniano le due guerre cecene, tragedia di un popolo da sempre «colpevole» di non voler rinunciare alla propria identità, legata alla religione islamica e quindi così diversa da quella moscovita. Lo scenario descritto da Fornoni nell’entrare in una Groznyj rasa al suolo, ormai città fantasma, circondato solo da soldati armati di kalašnikov, le proteste contro i governanti russi urlate da donne, anziani e bambini rimasti in città e il ricordo della narrazione ufficiale che parlava allora di «operazione antiterrorismo» (p. 127) non possono che lasciare un sapore amaro in bocca ai lettori di oggi.

Soffocamento, manipolazione e propaganda sono costanti che dalle inchieste di Fornoni sui rifiuti nucleari, le armi di distruzione di massa e le vie del gas, si delineano come caratteristiche della politica anche economica russa degli ultimi vent’anni. Non è un caso che ognuno di questi temi scottanti ruoti attorno alla vita di una «città chiusa» (Majak, Severodvinsk, Urengoj), luoghi spesso nemmeno segnati sulle cartine geografiche, inaccessibili, dove gli stessi abitanti vivono secondo le regole strettissime delle «città chiuse».

Tutto ciò spesso in situazioni ambientali disastrose e nocive, specialmente a Musljumovo, centro vicino al complesso militare di Majak, dove non si contano le tragedie familiari dovute al livello di radioattività della zona. Disastri ambientali e sofferenze umane di cui il regime sembra non farsi alcuno scrupolo, pronto a sacrificare vite, culture e paradisi naturali come il lago Bajkal per accrescere il proprio potere economico.

Su questo sfondo cupo, spicca l’integrità e il coraggio di alcune figure, per lo più giornalisti, incontrati da Fornoni, che hanno sacrificato la libertà – e in alcuni casi anche la vita – per difendere instancabilmente la verità. Tra di loro Nadežda Kutepova, costretta a lasciare la Russia per aver denunciato la situazione di Majak; Oleg Kašin, aggredito per i suoi servizi sui movimenti giovanili filo-putiniani e Anna Politkovskaja, assassinata nel 2006 in particolare per aver denunciato la situazione in Cecenia. «Ciò che conta è dare voce alla gente, raccontare questa grande tragedia del nostro paese. Perché lì la gente muore, ogni giorno, si consumano orrori indescrivibili. E avere paura o non averne poco importa, questa è la mia professione» (p. 129), affermava in un’intervista esclusiva nel 2003.

Il libro si conclude con il ricordo affettuoso di Andrej Mironov, a cui è dedicato il volume, accompagnatore e interprete di molti giornalisti internazionali desiderosi di denunciare le ingiustizie del mondo attuale e rimasto ucciso durante un servizio in Ucraina nel 2014.

L’invito che il lavoro divulgativo di Fornoni e soprattutto queste esperienze lasciano al lettore è la necessità di superare il proprio «egoismo superficiale» (p. 99, Grigorij Pomeranc) che ci fa trincerare dietro le occupazioni quotidiane ignorando le sofferenze mentre, con una corretta informazione e un cuore aperto pronto a denunciare «il vero volto, il volto disgustoso del male» (p. 100, Grigorij Pomeranc), potremmo contribuire ad alleviarle.


(foto d’apertura: cronacadiverona.com)

Miriam Zanoletti

Nata nel 1999, ha studiato all’Università Ca’ Foscari di Venezia e Albert-Ludwig di Friburgo, conseguendo la laurea magistrale in Lingue e Letterature tedesca e russa.

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