29 Giugno 2023

Il re è nudo!

Adriano Dell’Asta

La verità è una cosa fragile e i potenti se ne fanno gioco, ma ha la caratteristica di esistere, e di essere data da un Altro.

Nessuno può sapere come proseguirà nelle prossime ore (o settimane, mesi) la vicenda innescata la settimana scorsa dal capo della Wagner, Evgenij Prigožin, ma forse qualcosa si può già dire su quello che è ormai accaduto (anche se molto è ancora misterioso) e sulle conseguenze che potremmo trarne.

Per un anno e mezzo un settore consistente del mondo occidentale si è attardato a discutere se Putin avesse avuto delle ragioni credibili per invadere l’Ucraina; la settimana scorsa, all’alba del suo «colpo di Stato in pausa» (come è stato acutamente definito da Lucio Caracciolo), Prigožin in pochi minuti ha smentito tutte le fandonie che tanti intellettuali e analisti occidentali avevano così a lungo preso sul serio: che l’Ucraina fosse un covo di nazisti da bonificare, che andasse smilitarizzata prima che la NATO se ne servisse per un attacco alla Russia da lungo preparato, che il Donbass fosse il teatro di un genocidio ai danni dei russofoni, che proprio nel Donbass l’esercito ucraino avesse incrementato gli attacchi alla popolazione civile nei mesi immediatamente precedenti all’invasione (in realtà – ha detto – gli ucraini non sparavano sui civili, ma sulle postazioni militari che i soldati russi avevano illegalmente occupato a partire dal 2014), che il Donbass fosse tenuto sotto il controllo di oligarchi ucraini che lo sfruttavano (Prigožin è arrivato candidamente ad ammettere che erano le mafie russe – che lui, da ex-galeotto, conosce bene – a sfruttare la regione), che l’Occidente non avesse voluto trattare (ora Prigožin ci dice che era stato Putin a non voler cercare di raggiungere i propri scopi con delle trattative ancora possibili).

E così, una guerra tradizionale si è incancrenita come nessuno avrebbe creduto possibile e, invece della pace, ci siamo trovati sull’orlo di una guerra civile con caratteristiche e sviluppi che nessuno riesce ancora a immaginare sino in fondo; e non si tratta semplicemente del fatto che i contorni degli accordi presi tra Putin e Prigožin sono ancora del tutto indefiniti, ma di qualcosa di ben più profondo e preoccupante: la guerra civile che potrebbe scoppiare avverrebbe per la prima volta in un paese con enormi arsenali nucleari e (anche questo è un particolare del tutto inedito e non meno angosciante) non con lo scontro tra una popolazione ribelle e un potere prevaricatore, ma con lo scontro di almeno cinque formazioni militari fornita ciascuna di un proprio esercito (l’esercito regolare, la Wagner, le truppe dell’FSB, le truppe della Guardia Nazionale – che Putin si è creato negli ultimi anni quando ha cominciato a sospettare di tutto e di tutti – e le bande di Kadyrov); e questo scontro vedrebbe poi il popolo non come protagonista ma, almeno inizialmente, come carne da macello o come puro bottino, conteso (secondo un’atroce osservazione dello storico Andrej Zubov) tra una banda di mercenari in stile XVI secolo e lo Stato che li aveva creati nel XXI, per sua decisione autonoma e che si era poi dimostrato incapace di governare sino in fondo.

Il re è nudo!

Rostov durante l’«occupazione» dei mercenari. (161.ru)

Di fronte a questa tragedia, noi possiamo perderci in discussioni astratte, caratterizzate dallo scontro di punti di vista più o meno ideologici, e comunque soggettivi, e così restare preda di una disperazione paralizzante, oppure possiamo lasciarci provocare dal palesarsi della menzogna nuda e dal conseguente impatto con la realtà, e provare a superare il livello delle discussioni, cercando di capire quello che sta avvenendo.

Come diceva Vera Fedorova, ripercorrendo non le analisi astratte di tanti specialisti, ma l’esperienza concreta di un cittadino russo di questi giorni e la storia reale degli anni del dissenso, il primo passo è appunto superare «la paura di giudicare, di scegliere la verità e di assumersene la responsabilità e le conseguenze»; ben sapendo che questa paura e questa incapacità di giudicare hanno toccato e toccano anche noi, come ha mostrato un certo modo di guardare alla guerra tipico di questi mesi.

In questo percorso di discernimento capace di portarci oltre la discussione, possiamo provare a restare in campo russo, mostrando così quanto possa essere ricca la tradizione russa, «nonostante tutto» (cioè, in questo caso, liberata almeno dalle sue deformazioni putiniane).

Giudicare, usare la ragione, diceva Solov’ëv, implica sempre un processo di connessione della realtà con il suo significato, e in questo processo sia la realtà sia il suo significato non sono evidentemente dati da noi e non possono essere sostituiti dalle nostre interpretazioni; se pensiamo il contrario, e pensiamo di poter sostituire il Creatore rischieremo ogni volta di essere smentiti dalla realtà, come è successo qualche giorno fa e come sta succedendo da quasi un anno e mezzo: da quando abbiamo creduto di poter spiegare quello che accadeva aggiungendo all’insensatezza naturale di ogni guerra la menzogna particolare dell’ideologia del «mondo russo», che con Putin (come con Stalin o Lenin, prima), in nome di ideali inventati (di una presunta difesa dei valori cristiani, della presunta liberazione dai vecchi monopolismi), cerca di annientare l’umano cancellando la realtà.

Il re è nudo!

Rostov. (G. Ermakov, 161.ru)

La provocazione di questi giorni, nella radicalità di insensatezza davanti alla quale ci ha posti, nella sfida estrema a non crederci più padroni di un reale che avevamo vanamente cercato di esorcizzare con le nostre spiegazioni, ci rimanda invece all’essenziale: che quando non abbiamo più la possibilità di mascherarci dietro le spiegazioni che ci eravamo inventati o alle quali avevamo creduto (ma che ogni volta erano state smentite), quando ci hanno tolto tutto, l’uomo scopre di esserci ancora, scopre che il non senso della guerra, giudicato come tale, può essere vinto: non solo in nome di un senso e con un senso (la pace?) che non sono in mano nostra e che non siamo capaci di darci da soli, ma in forza di qualcosa che ci mette sulla strada di questo riconoscimento.

Come ci ha ricordato la resistenza di questi mesi, in forme diverse in Ucraina, in Russia e nella riscoperta Bielorussia, l’uomo esiste ancora: non innanzitutto a partire dalle analisi politiche che bisogna fare per vincere, ma a partire dalla coscienza e dall’esperienza di una comune umanità, di un comune destino di libertà, di dignità, di verità che accomuna ciascuno di noi agli altri esseri umani e che ci è testimoniato da tante figure la cui avventura è così vertiginosa (rischiare, se non la vita, condanne che sempre più spesso arrivano a quei venticinque anni che non si vedevano più dai tempi di Stalin) che non è più possibile mettere le nostre idee o progetti sullo stesso piano delle persone.

E nella coscienza di questa comune umanità si apre lo spazio per una solidarietà la cui posta non è il cambiamento di un sistema, ma la prova di una vita diversa; esattamente come ai tempi del dissenso, quando lo scopo non era stato una nuova rivoluzione, ma la creazione di quell’«atmosfera di pace» che in questi giorni il cardinal Zuppi sta umilmente cercando a Mosca (a dispetto di mille difficoltà e di mille freni). E poi, in questa nuova atmosfera, secondo quello che ogni popolo vorrà, potrà moltiplicarsi quella cosa sorprendente che già per i dissidenti era stata «una cosa semplicissima: in un paese non libero, incominciare a comportarsi come persone libere e con ciò stesso cambiare l’atmosfera morale e la tradizione che dominava il paese».


(foto d’apertura: Astra, telegram)

Adriano Dell’Asta

È docente di lingua e letteratura russa presso l’Università Cattolica. Accademico della Classe di Slavistica della Biblioteca Ambrosiana, è vicepresidente della Fondazione Russia Cristiana.

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