18 Marzo 2021

Bielorussia: il declino e la tenacia

Marta Dell'Asta

Le proteste sono finite ora è il tempo della vendetta del regime. Processi, perquisizioni, licenziamenti. Ma funziona la controinformazione e cresce la nuova opinione pubblica. La lettera di Filipenko.

Le proteste sono finite, è subentrata una certa stanchezza e viene naturale chiedersi se l’ordine che regna a Minsk indichi un paese rassegnato oppure no. Molti bielorussi giurano che i passi fatti in questi mesi non andranno perduti, che l’autocoscienza è saldamente acquisita e la protesta cova nel profondo. C’è qualcosa di simile alla desolazione che si diffuse tra i cecoslovacchi dopo il fallimento della Primavera di Praga, allora ci vollero vent’anni per rifiorire nella rivoluzione di velluto, certo non senza un intenso travaglio del pensiero e dello spirito. Quello che è diverso oggi è il contesto storico, perché ora non c’è la reazione a catena iniziata nell’89 dal declino del gigante sovietico, e tuttavia rimane uguale ad allora la potenzialità – e l’effetto erosivo – di una protesta autenticamente popolare e democratica, capillarmente diffusa. Com’è la protesta bielorussa oggi, che cova nel profondo e non resta epidermica, tanto che ha aperto delle brecce persino nelle cerchie del potere.

Da gennaio la situazione politica appare scoraggiante, perché il regime sembra aver assorbito il colpo e ha dispiegato una repressione a tutto campo, non più nelle strade ma sul suo terreno: le prigioni, i tribunali.

Cronaca dalla Bielorussia, il declino e la tenacia

È la fase dei processi

È entrata in funzione la «catena di montaggio» giudiziaria: in questo periodo arrivano in aula tutti quelli che sono stati arrestati durante le manifestazioni dell’estate-autunno-inverno; se consideriamo che solo nei primi tre giorni di manifestazioni in agosto gli arresti sono stati più di 7000, capiamo come mai a inizio gennaio erano già state processate, e naturalmente condannate, 30.000 persone. I processi sono talmente numerosi che quasi non fanno più notizia, tanto più che non c’è istanza cui ci si possa appellare per ottenere giustizia e l’intero sistema giudiziario non è che una cintura di trasmissione della struttura del potere. E le condanne non sono simboliche: le multe sono enormi, e si arriva anche a 10 anni di prigione; il detenuto politico più giovane del paese ha solo 16 anni, e gliene hanno dati 5 di galera.

Il processo più importante è quello contro uno dei maggiori antagonisti politici del regime, quel Viktor Babariko che voleva presentarsi alle presidenziali ma era stato arrestato prima di poterlo fare. Al processo del 17 febbraio il pubblico non è stato ammesso nell’aula, lo stesso accusato è stato introdotto per vie interne, in modo che i sostenitori assiepati all’esterno non lo vedessero e non potessero sostenerlo con applausi. Oltre all’avvocato, sono stati ammessi solo i parenti e, gioco forza, i rappresentanti diplomatici di USA, Germania, Francia e Unione Europea. I collaboratori di Babariko sono stati processati in precedenza e hanno già ricevuto 2 anni di prigione.

Intanto a Brest si celebra il processo per la morte del dimostrante Gennadij Šutov, ucciso dalla polizia; in aula è stato fatto il nome di chi ha dato l’ordine di sparargli alle spalle, ma non è lui ad essere sotto processo bensì il testimone oculare dell’omicidio, accusato di resistenza a pubblico ufficiale. L’accusa ha chiesto 10 anni.  Un altro processo ha visto alla sbarra la giornalista Ekaterina Borisevič e il dottor Artem Sorokin, condannati a 2 anni per aver reso pubblici gli esami del sangue di Roman Bondarenko, picchiato a morte dalla polizia con la scusa di ubriachezza molesta, mentre dalle analisi risultava lo 0‰ di alcol.

Sono andate a processo anche le giornaliste Dar’ja Čul’cova e Katerina Andreeva, colpevoli di aver trasmesso in streaming per il canale indipendente Belsat le dimostrazioni di piazza a Minsk; l’accusa è di aver «organizzato un evento di massa e aver paralizzato il traffico cittadino», e per questo hanno ricevuto 2 anni di campo. Un’altra corte ha condannato 59 partecipanti a un concerto non autorizzato a vari giorni di prigione e a forti multe.

Però, nonostante lo strapotere di una giustizia che viola la legge senza nessun deterrente esterno, la gente non si è rassegnata, e

uno dei segni più inequivocabili che la Bielorussia è cambiata consiste nell’atteggiamento verso i detenuti politici: fuori da ogni prigione si trova sempre una postazione di volontari, la gente si impegna a mandar loro pacchi e lettere, nascono fondi di soccorso ai perseguitati.

Oggi per l’opinione pubblica non è più decoroso l’atteggiamento tipicamente sovietico del cittadino benpensante leale all’autorità costituita; in Bielorussia ormai non si riconosce alcuna idealità in chi sta col governo: è evidente che chi lo fa tiene solo al proprio impiego statale, o fa parte della casta privilegiata del potere. La stima dell’opinione pubblica va decisamente ai prigionieri politici, e questo è un notevole salto di qualità.

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Il processo a carico delle giornaliste Dar’ja Čul’cova e Katerina Andreeva.

Il vecchio stile e la resistenza

Sotto la quiete un po’ depressiva che è tornata nelle strade c’è in realtà un lavorio incessante. Ad esempio per tenere la contabilità di tutti i crimini contro la persona e i suoi diritti commessi dalle strutture dello Stato. Dalla fine dell’ottobre 2020 è attivo il progetto chiamato «23.34», dal numero dell’articolo del Codice penale più usato contro i manifestanti: «Violazione dell’ordine costituito o partecipazione a manifestazioni di massa». Si tratta di un sito dove si raccolgono dati su tutte le violazioni compiute dalla polizia durante le dimostrazioni, e sono già più di 5000 gli episodi documentati di arresti illegali e torture annotati nel «Registro unico dei crimini». Alcuni legali studiano poi i casi, stilano le statistiche e trasmettono i dati alle organizzazioni internazionali per i diritti. C’è anche l’iniziativa congiunta del Tribunale popolare bielorusso e di By-Pol (l’organizzazione degli ex poliziotti dissociati e riparati all’estero) per indagare più in generale i crimini del regime di Lukašenko.

Il presidente Lukašenko, da parte sua, per dare l’impressione di aver ripreso in mano l’iniziativa politica, ha giocato la carta dell’Assemblea del popolo bielorusso (tenutasi l’11-12 febbraio) dove, in un lungo e incontrastato monologo, ha cercato di scaricare sul suo governo la responsabilità della crisi e il crollo delle preferenze, per non fare da unico parafulmine dell’ira popolare; a questo scopo, seguendo la via già battuta dal presidente russo, per dare una pallida apparenza di democrazia ha proposto alcuni emendamenti alla Costituzione, da sottoporre a referendum alla fine del 2021. In particolare uno degli emendamenti prevede di attribuire all’Assemblea del popolo lo status di organo costituzionale come «stabilizzatore nel periodo di transizione», anche se non è chiaro a nessuno quale transizione abbia in mente il presidente.

Intanto, nel mese di febbraio la polizia bielorussa ha iniziato un’ondata senza precedenti di perquisizioni nelle sedi di varie organizzazioni e in case private; il 16 febbraio gli agenti si sono presentati nella sede dell’Associazione indipendente dei giornalisti bielorussi, al Centro per i diritti umani Vesna, al Sindacato indipendente REP. La procura sostiene che la polizia sta cercando le prove dei finanziamenti stranieri delle attività di protesta. È stato lo stesso Ministero degli Interni a comunicare che nella sola giornata del 16 sono state compiute ben 90 perquisizioni tra Minsk, Mogilëv, Vitebsk e Brest.

Cronaca dalla Bielorussia, il declino e la tenacia

La filiale di Mogilëv del Centro Vesna dopo la perquisizione. (spring96.org)

Com’era da prevedere, la repressione sta arrivando anche per gli operai che nei mesi scorsi hanno scioperato; grazie ai filmati delle telecamere di sorveglianza li stanno individuando ad uno ad uno; nelle grandi fabbriche sono in corso i licenziamenti, spesso sotto forma di «riduzioni del personale». La prima della lista è stata la MZKT, fabbrica di camion dove il presidente, venuto in visita dopo le elezioni, era stato solennemente fischiato. Nei mesi delle dimostrazioni la posizione degli scioperanti era stata di grande coraggio civile, ora però è venuto il momento del ricatto, ed è tutto più difficile. Un problema supplementare è che questi licenziamenti portano sicuramente con sé una drastica riduzione delle maestranze più qualificate, cosa che metterà in crisi la produzione.

Ma il regime non sembra preoccuparsi molto di emarginare i cittadini più capaci e responsabili. Come c’era da aspettarsi, nessuno dei membri dell’opposizione arrestati l’anno scorso è stato rimesso in libertà. La donna simbolo della resistenza, Marija Kolesnikova, aspetta ancora il processo ma non riesce a trovare un difensore, perché già ben quattro avvocati sono stati «fatti fuori» uno dopo l’altro: due arrestati e due privati della licenza. Il 19 febbraio dal carcere ha fatto appello alla comunità internazionale degli avvocati perché qualcuno accetti di tutelarla, e si è detta convinta che si troverà pure un intrepido volontario. Come segno di sostegno, l’8 marzo il segretario di Stato americano Antony Blinken (di origine ucraina) le ha consegnato virtualmente l’International Women of Courage Award.

L’altra eroina bielorussa, Svetlana Tichanovskaja esiliata in Lituania, ha visto cambiare di 180 gradi l’atteggiamento del regime nei suoi confronti: se infatti in estate l’avevano costretta con minacce a riparare all’estero, ora la procura bielorussa ha chiesto la sua estradizione al governo lituano per metterla sotto processo come golpista. La nuova prova che la incastra sarebbe il filmato di una riunione segreta del suo staff. Il ministro degli esteri lituano ha tenuto a precisare che Tichanovskaja è una rifugiata politica. Ma in quanto rifugiata Tichanovskaja non è un caso isolato, ormai sono centinaia (tra cui almeno 200 medici) i bielorussi che per non restare in balia dell’arbitrio assoluto della giustizia e della polizia hanno preferito espatriare ed ora si trovano in Polonia o in Lituania. Si tratta di una nuova emigrazione sommersa.

La gente comunque è al corrente di quel che avviene, le notizie sui processi, le perquisizioni, gli espatri e i licenziamenti circolano ampiamente nel paese grazie a una rete indipendente di portali e canali Telegram che fanno da contraltare ai media di Stato. In questo nuovo mondo dell’informazione primeggia il canale Nexta, che l’8 marzo ha caricato su youtube un film-inchiesta sulle proprietà non dichiarate del presidente Lukašenko, qualcosa come 18 residenze principesche e un parco macchine milionario. Qui si riconosce lo stile di Naval’nyj, che punta sulla denuncia della corruzione; a Nexta dicono che in questo modo vogliono «arrivare a tutti i bielorussi» se pure ce ne fosse bisogno. In questo senso si sono rivelati inutili gli sforzi di KGB e Ministero degli Interni che già nel novembre dello scorso anno avevano inserito Nexta nell’elenco delle organizzazioni terroristiche, perché il canale aveva dato informazioni e aiutato a coordinare i movimenti dei dimostranti. Il film su Lukašenko, che si intitola Il fondo d’oro ha avuto oltre un milione di visualizzazioni in meno di 24 ore, ed ora ha superato i 6 milioni. Ma la cosa più interessante è che una fonte delle rivelazioni è un membro dello staff presidenziale in incognito…

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Il dottor Artem Sorokin e la giornalista Ekaterina Borisevič. (spring96.org)

Fate qualsiasi cosa, ma fate!

L’esempio di Nexta o degli ex-poliziotti di By-Pol mitiga il senso schiacciante di sconfitta, delusione e rabbia che ha preso molti. Inutile – dice una giornalista – mettersi a letto con la faccia verso il muro, abbiamo perso la battaglia ma c’è ancora molto da fare, non ci si può fermare scoraggiati:

«Non sapete cosa fare? Fate qualsiasi cosa, ma restate dentro il movimento. Ancora non sappiamo cosa fare, del resto non abbiamo mai saputo cosa fare, eppure abbiamo fatto. Intuitivamente. Secondo le possibilità. Anche adesso ciascuno può far molto sul posto di lavoro».

Svetlana Tichanovskaja, ad esempio, dall’esilio sta continuando a prendere iniziative; il 7 marzo si è recata in Svizzera con Ol’ga Kovalkova per ribadire ancora che il rispetto dei diritti umani è il nucleo di una sana convivenza in Europa. Le due donne hanno partecipato al Festival internazionale del film sui diritti umani a Ginevra. Anche il giovane scrittore Saša Filipenko, romanziere pluripremiato e conduttore televisivo, ha preso diverse iniziative. Dopo aver fatto da portavoce al movimento di protesta in estate, a metà febbraio ha inviato una lettera piuttosto secca al presidente della Croce Rossa internazionale Peter Maurer, che si era rifiutato di ispezionare le prigioni bielorusse; la lettera ha fatto scalpore ed è stata ripresa da molte testate richiamando l’attenzione sulla Bielorussia:

Filipenko

Saša Filipenko. (facebook)

«Egregio signor presidente… Le ho suggerito di ispezionare le prigioni bielorusse, in cui le donne dormono su pavimenti di cemento o su reti metalliche senza materassi, dove il pane viene messo sotto la testa al posto dei cuscini, i bagni sono buchi nel pavimento senza nessuno schermo, e le guardie non permettono di consegnare nelle celle né spazzolini da denti né assorbenti. In autunno Lei mi ha risposto che la Croce Rossa Internazionale non ha tale mandato. Ha spiegato che la neutralità, presumibilmente adottata dalla Croce Rossa Internazionale, impedisce di intervenire negli eventi bielorussi. Mi permetto di usare la parola “presumibilmente” perché nel caso della Bielorussia l’organizzazione da Lei guidata in realtà non osserva alcuna neutralità: la carica di presidente della rappresentanza bielorussa della Croce Rossa è ricoperta da Dmitrij Pinevič, ministro della Salute. Cioè, l’associazione è guidata da un funzionario nominato e direttamente subordinato al dittatore Lukašenko!…

La Croce Rossa collabora con il regime criminale che nel 2020 ha iniziato a costruire un campo di concentramento per prigionieri politici nel centro dell’Europa… Non crede, signor presidente, che viviamo in un’epoca in cui non è più possibile ignorare i campi di concentramento? La Croce Rossa, una delle organizzazioni umanitarie più influenti al mondo, deve finalmente smettere di comunicare e cooperare con i politici disonesti e ascoltare le voci della gente comune che chiede aiuto.

Non Le sto chiedendo di fare più di quanto possa: Le sto chiedendo di fare solo ciò che deve, solo ciò per cui nel mondo civilizzato esiste la Croce Rossa Internazionale. …La Croce Rossa è tenuta a chiedere la fine della pratica del rapimento e del pestaggio di cittadini da parte di individui senza segni di identificazione, a chiedere la fine della tortura: questa è una chiara violazione delle convenzioni internazionali firmate dalla Bielorussia.

Egregio signor presidente, noi vediamo che basta chiudere un occhio sulle atrocità delle forze dell’ordine in un paese perché i loro crimini si ripetano immediatamente in quello vicino.

Stiamo già registrando fatti di tortura e violenza contro i manifestanti pacifici detenuti in Russia. Sono certo di non doverle spiegare che se tutti noi continuiamo a rimanere inattivi, o se cercheremo di tranquillizzarci facendo finta di combattere l’ingiustizia, questo cancro si diffonderà e certamente sorgerà in qualche altro paese europeo. L’Ungheria, ad esempio, a mio parere è già abbastanza pronta per questo.

Egregio signor presidente, spero vivamente che il tono arrogante di sfida di questa lettera La offenda. Tuttavia, spero anche che Lei, essendo un uomo saggio, reprima l’indignazione e inizi a dimostrare coi fatti che ho torto».

Marta Dell'Asta

Marta Carletti Dell’Asta, è ricercatrice presso la Fondazione Russia Cristiana, dove si è specializzata sulle tematiche del dissenso e della politica religiosa dello Stato sovietico. Pubblicista dal 1985, è direttore responsabile della rivista «La Nuova Europa».

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