22 Marzo 2016

L’unità si fa camminando

Redazione

I giorni di febbraio-marzo sono stati densi di avvenimenti e di ricorrenze: fatti epocali come l’incontro di Cuba e, in Russia, anniversari ponderosi come il 70° della distruzione della Chiesa greco-cattolica ucraina, e il 60° del XX Congresso del Partito, quello della destalinizzazione.

Non sempre  quel che segue ai fatti epocali corrisponde alle nostre attese. Da una parte, dopo le parole fraterne sottoscritte da Francesco e Kirill, dopo che hanno deprecato la divisione delle Chiese come frutto del peccato e della debolezza umana, oggi torniamo a sentire dichiarazioni ufficiali molto dure, come quella del metropolita Ilarion Alfeev, in cui suonano vecchie accuse che non lasciano molta speranza, sui greco-cattolici «pietra d’inciampo su cui si infrangono sempre di nuovo i tentativi di avviare un dialogo».

Dall’altra, il ricordo del XX Congresso del 1956 non fa che accentuare per contrasto l’eterno ritorno dello stalinismo. E le agenzie stampa ci mostrano credenti che pregano e depongono fiori sulla tomba del grande padre-padrone, tanto che Svetlana Panič ha commentato sconsolata: «Il male chiama il male. Ciò che è buono e ragionevole gli sta stretto. In questi ultimi anni il male – nell’atmosfera politica e morale, in ciascuno di noi (oh come lo vedo in me!) – si è smosso, ha rialzato la testa, si è dispiegato».

Non c’è niente di più demoralizzante del ritorno nei vecchi solchi, come se non ci fossero energie morali e culturali bastanti per qualcosa di nuovo. Ma se i passi in avanti sembrano perdersi nell’inerzia del passato, e se la catena del male non si riesce a spezzare, così che i nemici restano nemici, su cosa si sostiene la speranza? Dove inizia la via della purificazione, della liberazione fra tentativi che sembrano falliti e la gente che non cambia mentalità?

Il punto della speranza si rivela cruciale per tutti. Quella cristiana non è sospesa tra l’ingenuità della colomba e l’astuzia del serpente, ma tiene serenamente insieme i due aspetti non con il fragile compromesso della sapienza umana ma posando sulla roccia di una Verità unitaria, che ci è stata affidata dallo Spirito innanzitutto per la nostra conversione, prima che per la conquista. Quando hanno chiesto a papa Francesco se non teme che le sue parole siano strumentalizzate, lui ha risposto che non lo teme, non perché questo non avvenga anzi avviene di continuo, ma perché la Verità non ha temuto di offrirsi inerme, perché appunto non voleva conquistare ma essere condivisa. E nel dir questo Francesco ci ha anche suggerito un metodo, invitandoci ad usare un’ermeneutica totale, cioè a guardare i fatti nel loro contesto più ampio, senza isolare le singole verità dal tutto. Questo permette di capire meglio il perché di tante cose, le apparenti ripulse, gli apparenti passi indietro, e ci fa accorgere che con tutto si può costruire: «persino quello che a noi sembra impuro, ci scandalizza e ci spaventa, Dio lo può trasformare in miracolo», ha detto.

La bontà del metodo trova conferma nei fatti che accadono accanto alle delusioni e alle durezze. La stessa Dichiarazione di Cuba poggiava sull’ingenuo affidamento alla forza di Dio nella storia, e al tempo stesso ha elaborato soluzioni verbali che tenessero conto delle resistenze delle due parti, e lasciassero aperto lo spazio per un cammino.
E così, nei primi giorni di marzo, alla vigilia del triste anniversario dello pseudo-Concilio di L’viv che annientò la Chiesa greco-cattolica ucraina con la complicità della Chiesa ortodossa russa, un gruppo di ortodossi, senza aspettare gesti ufficiali dai vescovi, si è assunto la responsabilità di mettere in atto il punto 6 della Dichiarazione, dove si dice: «Possa il nostro incontro ispirare i cristiani di tutto il mondo a pregare il Signore con rinnovato fervore per la piena unità di tutti i suoi discepoli. In un mondo che attende da noi non solo parole ma gesti concreti…».
La loro richiesta di perdono per la violenza perpetrata a L’viv nel 1946 non ha precedenti. È stata un gesto coraggioso e onesto, un tentativo di «ermeneutica totale» dove le ragioni dell’altro sono state, forse per la prima volta, prese seriamente in considerazione; forse noi fatichiamo ad apprezzarne pienamente la portata. E se il male chiama il male, è ancor più vero che la carità chiama carità, così in risposta alla lettera degli ortodossi, un greco-cattolico, ex dissidente ed ex detenuto del Gulag, ha risposto tendendo la mano con gratitudine.

Quello che è davvero rivoluzionario in tutto questo è la stima reciproca che affiora almeno a tratti, almeno in alcuni; e con la stima diventa possibile dirsi verità anche spiacevoli non usando la verità come un’arma d’offesa ma come un’apertura di credito. Così che, appunto, anche «quello che a noi sembra impuro, ci scandalizza e ci spaventa, Dio lo possa trasformare in miracolo».
La politica è sempre stata un elemento importante nella storia della Chiesa, e già ora attorno allo scambio di lettere tra ortodossi e greco-cattolici si stanno intrecciando le trame delle politiche ecclesiastiche, e i nazionalismi religiosi intorbidano le acque rendendo esplosiva la situazione tra le Chiese in Ucraina e Russia.
Ma se l’esperienza di Cuba ha insegnato qualcosa, è che se cerchiamo l’autentico discernimento delle vicende umane anche la storia ci mostra le sue ferite in modo diverso: per secoli, ad esempio, il Concilio di Firenze del 1439 è stato visto come l’ultimo fallimento del tentativo di unire cattolici e ortodossi. Oggi, alla luce di uno sguardo più ampio, la sconfitta di Firenze si mostra non come la pietra tombale ma come la pietra miliare di un lungo, insensibile cammino gli uni verso gli altri, che oggi dà frutti visibili.
Non siamo certamente al traguardo, ma non possiamo non vedere i passi fatti perché, come dice ancora papa Francesco, «l’unità si fa camminando».

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