4 Marzo 2023

Il premio Nobel dalla prigione invoca la riconciliazione nazionale

Ales' Bjaljacki

Il dissidente bielorusso Ales’ Bjaljacki, nonostante abbia ricevuto il Nobel, è stato condannato a dieci anni di detenzione. In aula ha lanciato un drammatico appello a tutti i bielorussi, perché le parti trovino nella collaborazione la via per salvare il paese dal disastro.

Ales’ Bjaljacki, Nobel per la pace, lo scorso 3 marzo è stato condannato a dieci anni di colonia penale. Cattolico, ha fondato il centro per la difesa dei diritti umani Vjasna, come attiva risposta alle mistificazioni e alla violenza di Stato. Due suoi stretti collaboratori (V. Stefanovič e V. Labkovič) hanno ricevuto condanne dai 7 ai 9 anni e una sanzione collettiva pari a circa 450.000 $. Secondo l’accusa i dissidenti avrebbero introdotto a più riprese in Bielorussia dalla Lituania piccole somme di denaro, peraltro consentite dalle norme valutarie, utilizzandole poi per pagare le multe ai manifestanti arrestati, l’onorario degli avvocati e l’acquisto di vettovaglie per i detenuti politici in isolamento.

Bjaljacki è in carcere dal 14 luglio 2021. Alla lettura della sentenza non hanno potuto presenziare parenti e amici, né i diplomatici stranieri e nemmeno Oleg Orlov, uno dei fondatori di Memorial in Russia, al quale è stato negato l’ingresso in Bielorussia. L’aula del tribunale era piena di allievi dell’Accademia di polizia, appositamente reclutati.

Durante l’ultima udienza del processo, svoltasi a Minsk il 13 febbraio, a Bjaljacki è stata concessa l’ultima parola, di cui pubblichiamo ampi stralci. Nel suo discorso, di ampio respiro politico, ha voluto fare i nomi di altri prigionieri di coscienza poco noti, perché anche la loro sorte sia presa a cuore dall’opinione pubblica interna ed estera. Si tratta di Marfa Rabkova, Andrej Čepjuk, Leonid Sudalenko, Tat’jana Lasica, Nasta Lojka.

Quello contro di noi del centro Vjasna è un processo politico. Tutta questa epopea in 284 volumi, le centinaia di perquisizioni e di interrogatori in tutto il paese non hanno nulla a che vedere con le indagini preliminari. In più c’è il retroterra politico, che ha viziato anche il corretto dibattimento processuale.

Le cosiddette indagini preliminari sono durate un anno e mezzo. Dei quattro avvocati che mi hanno difeso nelle varie fasi: Vitalij Braginec è finito in prigione ed è stato condannato a otto anni, altri due sono stati radiati dall’albo negli ultimi mesi, solo una è riuscita a portare a termine il suo lavoro. Questa pressione inaudita sugli avvocati mostra quanto siano difficili e pericolose le condizioni in cui devono difendere i propri clienti.

Dopo aver consultato alcuni volumi del cosiddetto fascicolo processuale, ci è apparso evidente che gli inquirenti hanno portato a termine il compito loro affidato, quello di togliere la libertà agli attivisti di Vjasna a qualunque costo, di distruggere la stessa Vjasna e di bloccare il nostro lavoro. Solo così si spiega come mai l’accusa di «evasione fiscale» (rimasta di fatto la stessa per tredici mesi) si sia improvvisamente trasformata in «contrabbando», che ha fatto di Vjasna un’«associazione a delinquere». È evidente che le autorità stanno violando gli obblighi internazionali che si sono assunte sottoscrivendo gli accordi congiunti con l’ONU e l’OSCE sulla tutela degli attivisti per i diritti umani. (…)

Il premio Nobel dalla prigione invoca la riconciliazione nazionale

I tre imputati in attesa della sentenza del 3 marzo.

Un processo contro la società civile

L’accusa e la corte praticamente si sono rifiutate di interrogarmi, per avere da me delucidazioni che sarebbero servite durante il processo. Ho l’impressione che né alla procura né alla corte interessi la verità, per loro era già tutto chiaro sin dall’inizio, prima ancora che cominciasse il processo. Ripeto che né la procura né la corte mi hanno dato la possibilità di consultare tutti i 284 volumi del cosiddetto fascicolo processuale.

Il fatto che questo procedimento contro gli attivisti di Vjasna abbia dei risvolti politici è testimoniato anche dalla situazione generale nel paese, che vede massicce repressioni e gravi violazioni dei diritti umani durante e dopo la campagna elettorale del 2020.

Invece di ascoltare la voce del popolo, in Bielorussia si è scatenata una reazione ancora peggiore. È evidente che la decisione politica delle autorità era distruggere e schiacciare la società civile.

Sono finiti sotto il rullo compressore delle repressioni giornalisti e blogger, analisti e politologi indipendenti, attivisti dei sindacati non ufficiali, leader e militanti di partiti e movimenti politici, attivisti dei comitati elettorali dei candidati alla presidenza, i candidati stessi, personalità della cultura bielorussa, scrittori, musicisti, pittori, docenti e studenti, atleti, semplici partecipanti alle proteste pacifiche, ma anche persone che passavano di lì per caso. (…)

Le repressioni nel nostro paese continuano tuttora. Lo testimoniano i sempre nuovi prigionieri politici che finiscono nel carcere di isolamento istruttorio. (…) All’inizio degli anni ’80, quando in URSS si è toccato il culmine della lotta contro i dissidenti, gli attivisti per i diritti umani, i membri dei movimenti nazionali e religiosi, in tutto l’immenso impero sovietico con una popolazione di 250 milioni di persone c’erano circa 3.000 prigionieri politici. Oggi nella sola Bielorussia ce ne sono 1.500.

Il premio Nobel dalla prigione invoca la riconciliazione nazionale

La delegazione occidentale esclusa dal tribunale.

Il dialogo, unica via d’uscita

Sono convinto che la via imboccata dalle autorità – il controllo totale della società, la feroce repressione del dissenso, il rifiuto totale del pluralismo, la riorganizzazione dello Stato sul modello del totalitarismo sovietico degli anni ’70 –  non abbia alcuna prospettiva. Il mondo va avanti, ed è entrato nell’epoca post-industriale.

È già cresciuta una nuova generazione, e oggi ci sono milioni di bielorussi che hanno dei valori civili diversi da quelli sovietici. Non vogliono vivere in una caserma sovietica.

Non si accontentano di un tozzo di pane secco con un po’ di zucchero o di lardo fritto. Vogliono ed esigono che la loro voce sia ascoltata e presa in considerazione. Vogliono vivere in una Bielorussia economicamente evoluta, democratica e indipendente. Gli avvenimenti del 2020, le massicce proteste contro i brogli elettorali e le violazioni dei diritti umani hanno offerto un quadro della situazione più chiaro di qualsiasi analisi sociologica. Per molti questi eventi sono stati una sorpresa, per le autorità si sono rivelati una sgradita sorpresa.

Bisogna riconoscere che la società e la gente del nostro paese sono profondamente divise in base a fattori biologici, ai valori, alla mentalità, ma chi vive nella società capisce che questa divisione dipende dall’età, dal luogo in cui si abita, dal grado di istruzione: non c’è da stupirsene, e il nostro non è l’unico caso. Nessuna società al mondo è perfettamente uniforme, sempre ci sono persone diverse con opinioni diverse, i cui interessi sono rappresentati dai partiti politici, e se le elezioni si svolgono in modo veramente equo, si può instaurare bene o male un certo rapporto di fiducia con il governo. La divisione della società bielorussa non è cruciale. Ci possono convivere sia la società che lo Stato, ma bisogna avere chiara consapevolezza che la divisione esiste e non chiudere gli occhi, né costruirsi un mondo confortevole, come piacerebbe a qualcuno.

Milioni di bielorussi pensano, discutono e vivono in un certo modo, altri milioni vivono diversamente. Non è così importante sapere quali sono di più, si tratta nell’uno e nell’altro caso di milioni. L’importante è capire cosa voglia dire una divisione interna alla società sul lungo periodo. Una divisione con cui noi, tutta la società bielorussa a prescindere da opinioni e convinzioni, dovremo convivere ancora a lungo. Scegliere la via dello scontro in una situazione in cui una parte – le forze di polizia, i servizi di sicurezza, la procura, l’apparato giudiziario e i tribunali – opprime e soffoca l’altra, è pericoloso e senza prospettive, non porta da nessuna parte. Lo conferma la storia dei paesi dell’America latina nel XX secolo: Cile, Argentina, Haiti e altri Stati.

Le giunte militari, le dittature non hanno prospettive di durata e di sviluppo. L’esito di questa politica di intolleranza, di scontro e di rifiuto totale del pluralismo politico è il moltiplicarsi di crisi sociali, politiche ed economiche e l’emigrazione di massa. Tutti questi elementi sono strettamente concatenati.

Una situazione di crisi totale dello Stato è molto pericolosa per la sovranità della Bielorussia. Siamo di fronte a enormi sfide geopolitiche, il paese ha imboccato un vicolo cieco. L’unica possibile via d’uscita dalla crisi globale in cui siamo finiti si può intravedere nella continua, lunga ricerca del consenso e dell’equilibrio, tenendo presenti gli interessi dei diversi ceti sociali.

Perché la Bielorussia continui a esistere come Stato, per il futuro del nostro popolo, noi tutti, e in primo luogo le autorità di governo, dobbiamo dar prova di saggezza e lungimiranza. Ricordo l’appello lanciato dal nostro centro Vjasna per le elezioni del 2020, pubblicato sul nostro sito e su altri media. In quell’appello chiedevamo al governo di non usare la violenza contro i manifestanti pacifici. Invece è stata usata, e sappiamo come è andata a finire.

Bisogna avviare un ampio dialogo pubblico per la riconciliazione nazionale, per quanto possa sembrare difficile. Il presupposto per questo dialogo devono essere la liberazione di tutti i prigionieri politici, l’attuazione di un’ampia amnistia, la cessazione delle repressioni,

perché non ha senso un’amnistia, se da una parte si mette in libertà la gente e dall’altra si continua a incarcerarla. A questo dialogo devono partecipare sia le autorità, sia i rappresentanti della comunità civile in senso lato: i partiti e i movimenti politici, coloro che oggi sono in prigione e quanti hanno dovuto fuggire all’estero per scampare alle repressioni.

bjaljackij processo

Gli allievi dell’Accademia di polizia in aula. (Telegram – Vjasna)

È una proposta reale, se solo ci fossero il desiderio e la volontà politica di realizzarla. La crisi socio-politica della Bielorussia non è un caso unico. Oggi altri paesi in diverse parti del mondo stanno cercando una via d’uscita da crisi analoghe. Ad esempio in Kazachstan, in Venezuela e perfino in Iran.

Bisogna rendersi conto con chiarezza che è meglio intraprendere difficili trattative per uscire gradualmente dalla crisi, piuttosto che arrivare a uno scontro spietato che può produrre gravissime conseguenze: povertà e miseria, violenza e ingiustizia, che devasterebbero la Bielorussia.

Se pensiamo alla Bielorussia come alla patria comune di tutti i bielorussi, dove c’è spazio per tutti a prescindere da opinioni politiche e geopolitiche diverse; se non vogliamo far precipitare il paese nella miseria; se non vogliamo che i bielorussi siano costretti ad abbandonare in massa il paese in cerca di una sorte migliore; se vogliamo che sia possibile lo sviluppo economico, socio-politico ed ecologico per il nostro popolo, dobbiamo iniziare questo dialogo civile.
Basta, bisogna fermare questa guerra civile!
Spero di essere ascoltato.


(foto d’apertura: spring96.org)

Ales' Bjaljacki

Studioso di letteratura bielorussa, è membro dell\’unione degli scrittori bielorussi. Nel 1980 partecipa alle proteste antisovietiche. È tra i fondatori del «Fronte popolare bielorusso» e della Comunità cattolica bielorussa. Nel 1996 fonda il Centro per i diritti umani Vjasna, con sede a Minsk, che fornisce assistenza finanziaria e legale ai prigionieri politici e alle loro famiglie. Il 7 ottobre 2022 riceve il premio Nobel per la pace.

LEGGI TUTTI GLI ARTICOLI

Abbonati per accedere a tutti i contenuti del sito.

ABBONATI