9 Giugno 2016

Bielorussia, il Meeting della frontiera

Andrej Strocev

In Bielorussia il festival «Pamežža» ha unito per quattro giorni realtà diverse. È il «Meeting di Minsk», alla sua seconda edizione, che ha offerto una mostra, un incontro e alcune felici coincidenze. Nel cuore della città, ma senza dare nell’occhio.

Per quattro giornate di fine primavera, dal 26 al 29 maggio, si è svolto a Minsk il festival «Pamežža», che in bielorusso significa «terra di confine». Ormai alla sua seconda edizione, il festival è nato l’anno scorso come «fratello minore» dell’italiano Meeting di Rimini. L’idea di dargli vita è sorta dalla nostra convinzione che la Bielorussia è, di fatto, una terra di confine, non tanto perché separa quanto perché unisce in sé Oriente e Occidente, Nord e Sud, l’Europa ortodossa e quella cattolica, e molto altro. Al «Pamežža» di Minsk si sono incontrati ospiti da ogni parte del mondo: Lituania, Ucraina, Italia, Francia, Belgio, Svizzera e Russia.
Pezzo forte della manifestazione è stata la mostra «Per me vivere è Cristo», dedicata al metropolita Antonij di Surož, presentata per la prima volta a Rimini l’estate scorsa. Il designer Aleksej Čekal’ ha creato una versione itinerante della mostra, che da Minsk ha iniziato il suo percorso per diverse città e paesi. La mostra è stata inaugurata in un luogo inaspettato, la galleria «Università della cultura» in pieno centro città, nel monumentale Palazzo della Repubblica, sull’enorme piazza della Rivoluzione d’ottobre che ormai è diventata un luogo-simbolo. Qui infatti si sono svolti molti scontri e manifestazioni politiche degli ultimi anni. La galleria, però, è nel seminterrato, per cui è emerso un insolito contrasto: l’evento si è svolto nel cuore della città ma senza dare nell’occhio. In maniera altrettanto contrastante le colonne idealmente diritte dell’edificio, proiettate verso il cielo, si sono unite alle linee calligrafiche leggere e svolazzanti in cui la mostra è stata realizzata.
A svolgere le visite guidate sono stati gli stessi volontari che l’hanno fatto al Meeting di Rimini: Roman Abramčuk, Nadežda Kochnovič, Andrej Strocev. Sempre qui è stato presentato il secondo libro del metropolita Antonij tradotto in bielorusso da Natal’ja Vasilevič, Marina Kalinovskaja e Alesja Meduševskaja. Si tratta di School of Prayer , il suo primo libro in inglese uscito nel 1970 e divenuto una lettura cult fra i membri dei gruppi informali inglesi e americani. Durante la presentazione si è esibito il coro greco-cattolico Prosfora. Conoscendo il rapporto non idilliaco del metropolita Antonij con il cattolicesimo, si può supporre che il suo modo di vedere l’unione dei greco-cattolici con Roma fosse ancora meno idilliaco. Ma qui alla mostra non c’è stata ombra di tensione perché sia gli ortodossi, che formavano l’équipe dei traduttori, che gli uniti, membri del coro, sono tutte persone che amano il metropolita Antonij allo stesso modo.

Il Bene comune, senza frontiere

Dall’Italia è arrivata per un giorno la storica dell’arte Mariella Carlotti. L’anno scorso al «Pamežža» è stata presentata la sua mostra su Gaudí e la chiesa della Sagrada Familia a Barcellona, ma questa volta abbiamo avuto la fortuna di accogliere a Minsk lei in persona. Sabato 28 maggio Mariella ha parlato degli affreschi del Buon governo nel Palazzo Pubblico di Siena o, come ha proposto di chiamarli, gli affreschi del «Bene comune». Lo scopo dei dipinti era mostrare che la vita politica può essere degna dell’uomo, veramente umana. È un argomento che in un modo o nell’altro sta a cuore a tutti e, naturalmente, non può non suscitare domande. Ad esempio, la figura allegorica della Giustizia negli affreschi mozza la testa con la spada a un delinquente, l’allegoria della Sicurezza tiene in mano la forca da cui pende un impiccato. In Bielorussia, l’ultimo paese europeo dove è ancora in vigore la pena di morte, la percezione di queste immagini non è la stessa che in Italia, dove possono essere attribuite alla specifica mentalità del XIV secolo. Si fa più incalzante la domanda: abbiamo bisogno della violenza per ottenere sicurezza? La violenza è indispensabile per ottenere giustizia? Grazie alla spiegazione degli affreschi di Siena si è riusciti, se non a rispondere a queste domande, almeno a portarle a un nuovo livello di profondità.
Sabato sera è stato presentato il libro Sua maestà il Sabato, del poeta e sacerdote russo Sergej Kruglov. Purtroppo padre Sergij non è potuto venire a Minsk di persona, perciò il suo libro è stato presentato da Dmitrij Strocev. Sua maestà il Sabato è una raccolta di poesie composte in diversi anni, che parlano del mondo ebraico. O meglio, più che di questo mondo parlano dall’interno di esso, dal suo cuore, dall’antichità biblica e dal medioevo yiddish fino alla Shoah e ai giorni nostri. Padre Krylov cerca di colmare con la poesia l’abisso che ha separato due comunità, quella cristiana e quella giudaica, duemila anni fa. Particolarmente interessante è che questi versi sono stati scritti in Siberia, così lontano dalla «zona di residenza»[1], dentro e fuori della quale questi due mondi hanno vissuto uno accanto all’altro. Tanto più prezioso è stato ascoltarli a Minsk, dove fino a poco tempo fa c’erano quasi un centinaio di sinagoghe.
Lo stesso sabato in cui è stato inaugurato il festival «Pamežža», in Bielorussia si celebrava anche una festa civile: la Giornata nazionale delle Guardie di frontiera. Per la città giravano in gran numero le guardie con i loro berretti verdi, suonavano la chitarra, bevevano birra e si divertivano in mille modi. Mentre stavamo preparando il festival, nessuno di noi sospettava che si sarebbe verificata questa coincidenza, che Dio ci avrebbe «giocato questo scherzetto».
Domenica si è svolto un altro bell’evento parallelo, la festa cattolica del Corpus Domini. Molti ospiti del festival hanno potuto partecipare alla processione con il Santissimo che ha attraversato la città. A Minsk questa festa si svolge in modo insolito: la processione non passa per antiche vie, come nelle capitali vicine e in altre città bielorusse, ma lungo l’ampio corso costruito nel dopoguerra, che attraversa le piazze principali, di epoca staliniana. Proprio in questi luoghi è stato portato il Corpo di Cristo ed è stato letto ad alta voce il Vangelo. È incredibile che diecimila persone si mettano in ginocchio in Piazza della Vittoria, di fronte alla fiamma perenne e all’obelisco in memoria dei caduti, guardando però non ai simboli sovietici ma all’ostensorio con il Pane consacrato.

Eucaristia e politica

Proprio quel giorno, festa dell’Eucaristia, ha tenuto la sua lezione un ospite venuto dalla Francia, il filosofo Jean-Noël Dumont, che ha parlato del teologo americano William Cavanaugh e della sua concezione del rapporto fra Eucaristia e politica. Prendendo spunto dal periodo della dittatura militare in Cile, Cavanaugh afferma che la civiltà contemporanea sta cercando di attribuire alla Chiesa solo la cura delle anime, mentre consegna totalmente la responsabilità dei corpi ad altre forze, in primo luogo al potere statale. Ma lo Stato può influire efficacemente solo su un corpo individuale, singolo, perciò guarda come un rivale qualsiasi corpo sociale: la famiglia, il cortile, il gruppo etnico, la comunità religiosa. Il modo estremo di influire su un corpo sociale sono le torture, che distruggono con la violenza i legami fra le persone. La Chiesa in Cile ha saputo rispondere al terrore autoritario circondando con la sua cura le vittime delle torture e scomunicando i carnefici, il che si è rivelato più efficace delle solite forme di protesta politica. I cristiani di oggi partecipano alla vita della società con l’attività culturale, l’impegno sociale, fondando dei partiti politici e così via. Ma sotto molti aspetti questi sforzi si basano sull’dea che al giorno d’oggi, per manifestare il proprio cristianesimo, si dovrebbe innanzitutto uscire dalla Chiesa. Cavanaugh pensa invece che la Chiesa, quando rimane se stessa, costituisca già un fenomeno politico nel senso più profondo, perché tramite l’Eucaristia raduna un nuovo Corpo che agisce nel mondo. Jean-Noël è stato aiutato splendidamente a esporre il pensiero di Cavanaugh dal suo amico e allievo Aleksej Sigov, giunto apposta da Kiev per tradurre la sua lezione.

Da sinistra: i marianisti Leščevič e Kašira, la chiesa della Trinità di Rosica e san Serafim di Žiroviči.

Alla lezione è seguito un racconto-testimonianza, sempre sul rapporto fra fede e politica: si è parlato della storia dei sacerdoti che durante la seconda guerra mondiale furono inviati nei territori della Bielorussia occidentale, dove in vent’anni di potere sovietico la vita della Chiesa era stata quasi completamente distrutta, e qui cominciarono a riaprire le chiese. Servirono la Chiesa nei territori occupati. A tutt’oggi ci sono opinioni divergenti sul loro conto. Alcuni li ritengono collaborazionisti, altri semplici persone che si sono trovate fra due regimi disumani. Alcuni di loro sono stati dimenticati, altri canonizzati. Per evitare di interpretare quella situazione in modo ideologico, siamo ricorsi all’esperienza di persone concrete. Quella dei martiri di Rosica, i religiosi marianisti Antonij Leščevič e Jurij Kašira, che si rifiutarono di abbandonare il proprio gregge e furono uccisi durante una rappresaglia nazista, e quella di san Serafim di Žiroviči, che riaprì più di settanta chiese ma venne fucilato dall’NKVD con l’accusa di aver collaborato con gli occupanti. Dei sacerdoti di Rosica hanno parlato Ol’ga Kulik e Polina Grib, del martire Serafim Marina Kalinovskaja e Pavel Korolëv. I nostri relatori vivono da tempo immersi in queste due storie, e visitano i luoghi legati a questi nuovi santi della Chiesa cattolica e ortodossa. Al termine della conversazione è nata l’idea di un viaggio di gruppo ai luoghi della memoria dei santi del XX secolo, che permetterebbe di unire queste esperienze.
Il festival si è concluso con una serata in memoria di Nikita Struve, l’editore parigino direttore del «Messaggero del movimento cristiano russo», scomparso il 7 maggio scorso. Lo hanno ricordato padre Aleksandr Šramko, Jean-François Thiry, Aleksandr Filonenko e Aleksej Sigov, che lo hanno conosciuto di persona. Filonenko ha parlato di Nikita Alekseevič come di un uomo che sapeva servire con letizia, capace di cadere in ginocchio con gioiosa libertà di fronte alla bellezza, il che è così lontano dallo spirito del «rimettersi in piedi». Forse proprio questa umile letizia lo ha reso un piccolo ponte che ha unito realtà spesso in apparenza irrimediabilmente divise: la Chiesa e il mondo, la fede e la cultura, l’Europa e la Russia, e molte altre. Forse è proprio questo il lavoro di un vero uomo di frontiera, di un uomo del «Pamežža».
Naturalmente, oltre agli eventi in programma il festival ha significato anche pranzi e cene insieme, passeggiate per la città, andare a prendere qualcuno alla stazione e accompagnare un altro all’aeroporto e, soprattutto, superare i confini: quelli statali e molti altri.

[1] Si intende la zona designata per lo stanziamento degli ebrei nell’impero russo prima del 1917. ndt

-> Versione russa

Andrej Strocev

Nato a Minsk (Bielorussia) nel 1994. Ortodosso. Dopo la laurea in culturologia a Vilnius, ha ottenuto un dottorato alla Scuola di studi superiori in scienze sociali di Parigi. Vive a Minsk. Studia la storia della Bielorussia, si interessa di folclore, teologia.

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