2 Luglio 2021

Bielorussia: due vescovi cacciati, ma due veri pastori

Marta Dell'Asta

Nella Bielorussia preda di paura e depressione, due vescovi ortodossi hanno mostrato come si fa a vivere nella verità. Sono stati entrambi deposti ma il loro esempio resta, a fronte di una struttura ecclesiastica invischiata nelle logiche di potere.

Sin dal periodo tardo sovietico la tecnica per tenere sotto controllo le Chiese è stata quella di ingerirsi al loro interno attraverso «persone di fiducia» – molto spesso chierici – in modo da non dover ricorrere a clamorose azioni repressive dall’esterno. Queste persone di fiducia, infatti, venivano manipolate, ricattate, indottrinate per formare una specie di quinta colonna che interferisse nei processi decisionali e spirituali della Chiesa. I «collaboratori» venivano attivamente coltivati nei seminari, nei monasteri, e più si saliva nella scala gerarchica, più accurata era la selezione. I vescovi, in assoluto, erano la categoria più manipolata e più filtrata; difficile che una personalità forte e indipendente arrivasse alla cattedra episcopale. Eppure, come aveva scritto Jurij Burtin parlando della generazione degli anni ’60, «la vita è indistruttibile, è più astuta anche dei calcoli all’apparenza più perfetti e lungimiranti». Lo stesso dicasi per la Chiesa, dove lo Spirito soffia e ha fatto sì che veri pastori fossero sempre presenti anche in mezzo a un ambiente pesantemente compromesso. La storia del ‘900 in Russia ha conservato i nomi di diversi grandi vescovi, dal patriarca Tichon all’arcivescovo Ermogen di Kaluga, sino al metropolita Filaret di Minsk.

E proprio la Bielorussia in questi ultimi mesi ha potuto constatare con gioia di avere grandi figure di pastori in una situazione che per violenza poliziesca, psicologica e amministrativa non ha niente da invidiare al periodo sovietico.

La prima figura è stata quella dell’esarca patriarcale metropolita Pavel (al secolo Georgij Ponomarëv) che nel 2013 aveva assunto la cattedra di Minsk dopo il ritiro del predecessore Filaret; una figura inizialmente poco visibile, tiepida sulle questioni ecumeniche, abbastanza defilata sul resto. Quando l’anno scorso il presidente aveva fatto asportare le croci piantate dalla gente sulle fosse comuni staliniane di Kuropaty, il metropolita non aveva preso nessuna posizione, scontentando sia il governo che l’opinione pubblica che protestava.

Bielorussia: due vescovi cacciati, ma due veri pastori

Il metropolita Pavel (mitropoliankuban.ru)

Dopo le presidenziali del 9 agosto 2020 il metropolita aveva inviato le felicitazioni di rito a Lukašenko per la vittoria elettorale, ma cinque giorni più tardi, con una decisione inaspettata e sorprendente, aveva chiesto scusa del suo «gesto improvvido» perché, come ha poi riferito il suo portavoce padre Sergij Lepin, dopo essere stato adeguatamente informato e aver visto le riprese degli arresti, «era rimasto indignato, inorridito e sconvolto». Era quindi andato in un ospedale a visitare alcune vittime e le aveva esortate a non perdersi d’animo, infine aveva pubblicamente chiesto al governo di cessare le violenze. Ma a quel punto la logica «ecclesiastica» nel senso politico del termine aveva preso il sopravvento e il metropolita, per non fomentare scandali, aveva presentato le proprie dimissioni, subito accolte dal Santo Sinodo di Mosca, il 25 agosto.

Il dramma era scoppiato e si era consumato in soli 9 giorni, ma il popolo bielorusso ha avuto la (amara) soddisfazione di constatare che il primate ortodosso, pur appartenendo all’establishment ecclesiastico, aveva avuto la libertà interiore di ricredersi e di cambiare posizione.

Un altro pastore che esce dai ranghi

Poco meno di un anno dopo, nel giugno del 2021 è toccato a un altro vescovo bielorusso pagare con la perdita della cattedra la propria libertà di coscienza, ancora una volta in un senso per nulla politico ma puramente evangelico.

L’arcivescovo Artemij (al secolo Aleksandr Kiščenko), che è stato molto vicino al defunto metropolita Filaret, e che reggeva la cattedra di Grodno da 25 anni, l’8 giugno è stato pensionato per non meglio identificati «motivi di salute» addotti in sua vece dal Santo Sinodo bielorusso, e che il Santo Sinodo di Mosca ha accolto il giorno seguente. La manovra è stata da subito denunciata dagli osservatori come l’allontanamento forzato di un vescovo scomodo con una scusa chiaramente fasulla che, in realtà, era soltanto una ritorsione per le prese di posizione pubbliche di Artemij, intollerabili dal punto di vista del potere.

L’arcivescovo è in effetti una figura di pastore che si distingue nel panorama generale; uomo colto, teologo descritto come «saggio e umile» da chi lo conosce personalmente, è un uomo spirituale che di fronte alle inammissibili violenze degli ultimi mesi ha saputo dare una risposta chiara all’eterno problema che si pone agli ortodossi di fronte alla politica: mi sto immischiando in cose che non competono al cristiano?

La risposta di Artemij è risuonata senza ambiguità, sia dal pulpito che durante un’intervista. L’aver cercato di generalizzare, dicendo che «in tutti i tempi e in tutti i paesi i politici cercheranno sempre di mettere i piedi in testa alla Chiesa, perché si conformi alle richieste del potere» non lo ha salvato dall’accusa di sostenere i dimostranti e dalla sconfessione da parte del Santo Sinodo bielorusso, guidato dal nuovo metropolita Veniamin.

Bielorussia: due vescovi cacciati, ma due veri pastori

L’arcivescovo Artemij (pokrovgrodno.org).

Il punto su cui Artemij insiste è che il cristiano non può conformarsi al mondo, accettare la menzogna e la violenza come un dato di fatto che non riguarda la salvezza della sua anima. Nella predica del 17 maggio è stato molto ardente e duro: «La Chiesa dev’essere una lucerna, la voce indipendente della coscienza cristiana. Noi non stiamo a discutere la politica, il governo. Noi diciamo che si stanno compiendo degli atti illegali! Che dei nostri compatrioti si sono trasformati in belve e torturano i loro fratelli!».

E subito dopo ha ribadito, con un linguaggio sofferto ma pieno di speranza: «La posizione di un credente dev’essere quella di non rassegnarsi mai al male. Il cristiano non si adatta ai potenti di turno, ma fa quello che chiede Cristo…

La nostra Chiesa ha dovuto affrontare durissime prove; i nostri sacerdoti sono sepolti alle Solovki, i nostri pastori giacciono lungo il Canale del Mar Bianco; sono rimasti vivi gli opportunisti. Ma nonostante tutto la Chiesa rinasce ed è arrivata una nuova generazione che mostra la sua vitalità.

Ed io mi vergogno davanti ad essa. Per questo non possiamo tacere, bisogna parlare. Dobbiamo imparare dai giovani! E la generazione adulta che brontola, gli insegnanti che dicono che non bisogna fare politica, devono mettersi in ginocchio per tutte le falsificazioni, le menzogne che hanno inculcato ai nostri ragazzi!».

Concludendo ha poi collegato la violenza che è emersa in modo sconvolgente nei tutori dell’ordine all’educazione sovietica e all’ateismo: «Oggi i vostri allievi hanno strappato la catena, hanno sete di sangue, sono degli psicopatici».

In un’altra occasione, sempre predicando, l’arcivescovo ha ricordato con severità che il conformismo è un suicidio, e che per i martiri il silenzio equivaleva a tradire Dio, «Essere cristiani significa portare la croce, che è innanzitutto la lotta contro i nostri vizi personali, e poi contro la mentalità mondana. …La croce è pesante, ma bisogna portarla ed essere pronti talvolta a sacrificare se stessi. Del resto questo è il cristianesimo, qui sta il senso della nostra salvezza. Prendete la vostra croce, dice il Signore. Non c’è altra via, o con Dio o col diavolo, non c’è altra possibilità».

C’è stata poi un’intervista in cui Artemij ha approfondito il tema spinoso del rapporto con la politica, di qual è il giusto atteggiamento civile che un cristiano dovrebbe tenere davanti agli avvenimenti pubblici. In effetti su questo argomento gli sono piovute sul capo accuse e critiche violente, non solo dagli ambienti governativi ma anche da quelli ortodossi (un grande monastero della capitale ha dato inizio a una raccolta di firme per ottenere le sue dimissioni). Evidentemente, quando parlava di croce Artemij sapeva quel che si diceva.

«Ritengo che tutta la storia della nostra Chiesa sia la storia della nostra schiavitù, di un cristianesimo diventato ideologia, politica. …Lo stesso è accaduto ai patrioti di Bisanzio, lo stesso vizio dell’autocompiacimento, la stessa mondanizzazione della religione, la perdita del rapporto con Dio e la moneta di Cesare che ci attacca alla terra. Lo stesso è accaduto anche in Russia… Questa storia si ripete.

La Chiesa funziona come una medicina, non è suo compito indicare un’idea politica. Deve salvarmi la vita.

Per questo la preghiera: “salvami e proteggimi” significa salvami la vita. Il che non vuol dire salvami dai problemi, dalle difficoltà, ma salva l’essenza della mia vita che è lontana da Dio e ha perso il senso originario che le era stato dato. Questa è la vocazione della Chiesa: sale della terra e luce del mondo. E ciascuno di noi è chiamato, nella misura delle sue forze, ad essere un confessore di Cristo».

A questo punto il giornalista gli ha ricordato le critiche contro di lui, in merito al fare politica.

«Io di politica non mi interesso, mi è indifferente. Spesso la confessione religiosa che ha il predominio cerca di emarginare le altre appoggiandosi al potere. Questa è una politica malsana, cattiva, che non porta nessun bene. È vivere cristianamente che dà il predominio, non lo si deve imporre dall’esterno.

Io non parlo di politica, io parlo di un principio di vita.

Cos’era l’uomo per la politica sovietica, per l’ideologia? Era un bullone, un piccolo meccanismo all’interno del grande meccanismo. La cosa importante era che il meccanismo funzionasse, e lo scopo del meccanismo era la sua pura esistenza. Io la penso diversamente: la cosa più importante è l’uomo, che viene prima del meccanismo. Non c’è niente di più alto nelle nostre reali condizioni terrene dell’immagine e somiglianza di Dio presenti nell’uomo. Che l’uomo sia un essere libero, una persona libera, una persona che condivide interiormente la vita divina della Trinità. Per questo il cristianesimo è innanzitutto ricostituire l’uomo; come dice Dostoevskij, noi siamo responsabili per ogni lacrima di bambino. E io direi, siamo responsabili di ogni goccia di sangue».

Marta Dell'Asta

Marta Carletti Dell’Asta, è ricercatrice presso la Fondazione Russia Cristiana, dove si è specializzata sulle tematiche del dissenso e della politica religiosa dello Stato sovietico. Pubblicista dal 1985, è direttore responsabile della rivista «La Nuova Europa».

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