5 Luglio 2016

Storie di papà

Tat'jana Krasnova

Russia all’opera – La rete di beneficienza fatta dai privati mette in moto una circolazione di bene in cui ognuno dà il meglio di sé, superando barriere etniche e d’ogni genere. Dietro ai «grandi papà» si intravede la disponibilità di tanti

Di veri uomini non ce ne sono tanti in questi corridoi sterili.
Ospedale pediatrico. Reparto di oncologia. Non è un posto per centometristi. Non c’è nessun traguardo da prendere di petto.
Non è che non ci sia spazio per atti eroici; solo che possono protrarsi per vari anni e terminare con una rovinosa sconfitta. Senza offesa, ma il più delle volte sono le fragili e «deboli» mamme a sostenere queste battaglie.
Proprio per questo, voglio parlarvi di alcuni padri che ho avuto la fortuna di conoscere, e che sono fiera di poter chiamare miei amici.
E scusatemi se la maggior parte di queste storie sarà triste.
Ma è quello che è successo.

Il papà di Bašat

Il suo nome è Muslim, avevo già parlato di lui, tempo fa. Guida un autocarro, vive in un villaggio a cento chilometri da Alma-Ata. Quando ci siamo conosciuti parlava russo a malapena. Perciò non sono riuscita subito a capire quel che mi stava dicendo quella voce agitata nella cornetta del telefono. Un bambino. Dodici anni. Tumore.
Mi ha dettato un nome e io ho scritto qualcosa su un foglio.
«Faremo il possibile – gli ho detto – ma mi serve una foto del bambino. Ha capito? Una foto! Mi serve una foto! Immediatamente. Mi mandi una foto via mail».
«Ho capito» – mi ha detto il papà.
Quando mezz’ora dopo il mio telefono di casa ha squillato di nuovo, sapevo già che Bašat non ce l’avrebbe fatta. Per i tumori come il suo non hanno ancora trovato una cura. Nemmeno in America. Nemmeno in Germania. Nemmeno in Israele. Così era scritto nelle enciclopedie. Mi ha chiamato il fotografo da cui il papà di Bašat aveva portato il bambino, che si era da poco sottoposto a una prima operazione al cervello.
«Non ci capisco niente – mi ha detto – c’è un bambino con un berretto in testa, mi hanno detto di telefonarle, ma che vogliono?!»
Non avevo ancora fatto in tempo a riprendermi e così avevo riversato addosso al povero fotografo, estraneo alla vicenda, tutto ciò che avevo appena letto sul tumore di Bašat.
«Oh Signore… – sento dall’altro capo del telefono. – Ci penso io. Vi mando io la foto. Non voglio soldi, lo faccio gratis».
E così è comparso nelle nostre vite il serio Bašatik dagli occhi neri. Sua mamma è rimasta a casa. Con lui, all’ospedale, negli appartamenti per i malati, dai conoscenti e poi ancora all’ospedale, c’era sempre il padre. «Mia moglie non ce la farebbe – ha detto Muslim – per lei è troppo difficile. Piange continuamente»…Piangere non si poteva. Abbiamo raccolto i soldi necessari. I medici hanno iniziato con il tumore una lotta all’ultimo sangue. Operazioni, radioterapia…
Finché Bašat ha potuto leggere e scrivere ha continuato a studiare. Papà Muslim gli diceva: «Guarda quante brave persone ti stanno aiutando, devi esserne degno!» E lui ci provava. Ad ogni nostro incontro suo padre mi portava i quaderni, tutti scritti in modo accurato e preciso. Neanche un errore. Sempre il massimo dei voti. Bašat voleva che li controllassi tutti. E io li leggevo.
Gli confermavo che era “degno”…
Poi la calligrafia è andata peggiorando. E poi Bašat non è stato più in grado di scrivere. E poi è divenuto chiaro che eravamo ormai alla fine, che avevamo perso. Grazie a una terapia assurdamente costosa il bambino non ha sofferto fino all’ultimo.
Quando è venuto il momento di tornare a casa, il papà di Bašat ha ringraziato ogni medico e ogni infermiera dell’ospedale.
Io so che i dottori ricordano la sua gratitudine ancora adesso. Quando ormai il bambino non c’era più, Muslim mi telefonava tutti i giorni. Non per lamentarsi. Chiamava per dirmi che a casa sua era venuto il Mullah. E anche tutti i vicini. Che li aveva accolti tutti, come si doveva. Perché non dubitassi. Perché dicessi a tutti che si erano accomiatati dal loro bambino in modo degno.
Sono passati alcuni anni, ma ad ogni Pasqua ortodossa, io, che sono cattolica, ricevo una telefonata di mattina presto e sento la voce di Muslim che da musulmano mi dice: «Cristo è risorto!». E io rispondo forte: «Veramente è risorto!».
Veramente.

Il papà di Anželika

Il suo nome è Aršavir. È un poliziotto di Stepanakert. Era tanto che aspettavano una figlia. Erano andati dai medici, levato suppliche dentro le chiese. Le loro preghiere erano state esaudite. Intelligente, semplice, bella.
A sedici anni le hanno scoperto un tumore alla schiena, tale che perfino i medici più eminenti di Kaširka hanno allargato le braccia: troppo aggressivo, non risponde alle terapie.
Se ne stavano seduti nella mia cucina, Aršavir e Svetlana, il papà e la mamma. Persone ormai non più giovani, mezze morte per il dolore. «Non si può fare proprio niente?» mi ha chiesto il papà di Anželika.
E io, in modo inaspettato anche per me stessa, gli ho risposto: «Proviamo in Israele!».
«Possono aiutarci?».
«Non lo so. Ma sarai sicuro che per tua figlia è stato fatto tutto quel che si poteva in questo mondo».
Ancora oggi non capisco come Aršavir ci sia riuscito. Avevano un passaporto della Repubblica del Karabakh, cioè il documento di uno Stato che non riconosce praticamente nessuno. Non avevano tempo di mettersi in regola. Tutti quelli a cui avevo rivolto le mie grida di aiuto in internet, mi avevano risposto con sicurezza che con quei documenti non era possibile andare da nessuna parte. C’era un’enorme macchina burocratica e contro di essa solo e soltanto un uomo. Il papà di Anželika. E ha vinto. Ha ottenuto le carte, le traduzioni, tutti i documenti. I visti. E tutto ciò in meno di tre giorni.
Ancora non capisco come abbiamo fatto a raccogliere i soldi. Nessun fondo voleva prendersi la briga di aiutare una straniera che anche i dottori di Mosca avevano rifiutato di curare. Non avevamo neanche il conto corrente. Non avevano un posto dove andare a vivere in Israele. Non sapevamo a che clinica rivolgerci. In meno di una settimana abbiamo raccolto da chissà dove una somma enorme. Beh, enorme per i nostri standard. La ragazza e sua madre sono andate ospiti di una mia amica, lei stessa appena uscita da alcuni cicli di chemioterapia. Un’altra nostra amica ci ha trovato la clinica. E i medici migliori.
A Tel-Aviv, Anželika ha visto il mare per la prima volta.
In riva al mare e sulle altalene: ce la ricordiamo così. Assolutamente felice. Sognava sempre di poterlo rivedere, quel mare.
Non è stato possibile.
Negli ultimi mesi di vita della sua bambina, Aršavir ha lasciato il lavoro, per poterle tenere la mano. «Mia moglie non può – diceva – è troppo difficile».
L’anno nuovo e, immancabilmente, l’8 marzo, per me iniziano sempre con la telefonata di Aršavir. Ogni volta mi dice che siamo la sua famiglia. Forse dovrò mantenere la mia promessa e andare a Stepanakert. A vedere la montagne più belle del mondo e la chiesa preferita della nostra Anželika.

Bašat e Anželika.

Il papà di Bogdan

Il suo nome è Anatolij. Tolja. Nel suo grande villaggio dell’Ucraina occidentale Tolja ha un apiario. Là c’è il miele più bello del mondo, e le mele più buone. Inoltre, Tolja è anche sagrestano della chiesa del villaggio.
Bogdan l’abbiamo conosciuto per cinque degli otto anni della sua breve vita. Sua mamma non è potuta restare in ospedale. Piangeva sempre, non riusciva a fare niente. Tolja l’ha lasciata a casa con la figlia più grande e i nonni, e si è trasferito nella stanza d’ospedale. Nutriva il suo bambino, lo consolava, lo accompagnava per mano alle sedute di terapia. Sempre con il sorriso.
«Come sei bravo! – gli ho detto una volta. – Non ti perdi d’animo…».
«Perché, servirebbe a qualcosa?» mi ha risposto serio Tolja.
Bogdan adorava le automobiline. Ogni volta che gliene regalavo una nuova, passandola nel contenitore di sterilizzazione, il papà gli diceva: «Bada: Tat’jana Viktorovna ha detto che se non guarisci se la riprende!».
Bogdan in tutta risposta sorrideva con l’aria di uno che la sa lunga. Era abituato al fatto che papà scherza sempre.
E così è andato a Kiev con un intero parco-macchine giocattolo. Con le nostre ultime forze credevamo che i dottori ucraini sarebbero riusciti dove quelli moscoviti avevano fallito. In pieno Majdan, scrivevo agli amici ucraini: «Aiutateci, non ci abbandonate, è un nostro bambino, noi qui non possiamo aiutarlo!».
Gli sponsor ucraini e i semplici volontari hanno fatto per Tolja e Bogdan tutto ciò che era necessario.
Alla nostra associazione, Una busta per Dio, Tolja ha detto che prega per noi ogni giorno, come noi abbiamo pregato per lui e per il suo bambino.
Proprio poco tempo fa, abbiamo finito un barattolo di miele, denso e profumato di mele…

Il papà di Katjuška

Nei miei racconti non ho cambiato neppure un nome. I miei amici si ricordano di Muslim, Tolja e Aršavir. Persone semplicissime, che non assomigliano affatto a supereroi.
Il mio ultimo racconto sarà su un padre russo, moscovita. Lo chiamerò con un altro nome, perché la sua storia non è ancora finita e sono fortemente convinta che avrà una conclusione felice. La figlia di Miša, Katjuška, ha undici anni.
Quando è nata, i soliti benintenzionati sussurravano alla famiglia, come alle altre famiglie di questo tipo: «Datela in affidamento! Tanto non vivrà a lungo! Cosa ve ne fate, siete giovani, fate un altro bambino sano!».
I dottori dicevano che Katjuša non si sarebbe mai alzata in piedi, non avrebbe mai imparato a tenere un cucchiaio, e non avrebbe nemmeno riconosciuto il padre e la madre. Papà Miša replicava con decisione che non avrebbe dato la sua bambina a nessuno e che su questo non intendeva arretrare neanche di un millimetro.
Di tanto in tanto io e i miei amici aiutiamo a pagare l’ennesima riabilitazione per Katjuša. Miša non può cercare un lavoro che gli garantisca un buono stipendio, tutta la sua vita è dedicata alla cosa principale: sua figlia. Ogni volta che ci incontriamo mi porta un nuovo video. Nell’ultimo piccolo filmato, c’è una bella bambina sorridente, con dei bei fiocchi, che cammina con sicurezza per la stanza. Una scolaretta. Indipendente.
Che importa se frequenta ancora una scuola speciale. Che importa se per ora Katjuša può camminare solo dalla porta alla finestra. Con questo papà accanto, ce la farà.
Questo testo l’ho scritto per la Festa del Papà. A quanto sembra, non è ancora diventata una festa internazionale. Può darsi che di padri come questi che ho descritto io ce ne siano pochi. E forse le mie storie non sono riuscite molto allegre.
Ma i nomi di questi padri io li sgrano come un rosario, quando voglio ricordarmi su cosa, di fatto, si regge il mondo.

Tat'jana Krasnova

Docente presso la facoltà di Giornalismo dell’Università Statale di Mosca Lomonosov, coordinatrice dell’Istituto di beneficenza per bambini “Una busta per Dio“.

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