7 Aprile 2016

Potevano ammazzarmi… e mi hanno chiesto scusa

Tat'jana Krasnova

Docente presso la facoltà di Giornalismo dell’Università Statale di Mosca Lomonosov, coordinatrice dell’Istituto di beneficenza per bambini “Una busta per Dio“.

Si chiama Muslim Mamedov. Non credo abbia più di quarant’anni. Faceva l’autista nel suo villaggio natale. Aveva una moglie e due figli. Abbiamo fatto una colletta per il maggiore quando Muslim lo ha portato a Mosca sulle braccia, perché il bambino sveniva e piangeva per il mal di testa.
Dalle loro parti i medici avevano detto che quel tipo di tumore al cervello non lo sapevano curare. A Mosca hanno scoperto che non si cura da nessuna parte: né in America, né in Germania, né in Israele. Insomma, per ora non si può.

Così siamo stati insieme un anno. Noi sapevamo che il piccolo Bašat era condannato, che non potevamo fare niente, ma i medici si sono battuti fino all’ultimo contro la morte. E Muslim stava accanto a suo figlio notte e giorno. È stato un anno molto difficile, ma voglio raccontarvene solo alcuni minuti.
Muslim aveva finito i soldi.
Per un uomo abituato sin dall’infanzia a fare il duro lavoro dei campi per nutrire sé e la famiglia, senza mai chiedere niente a nessuno, era una situazione terribile.
Io gli ho detto: «Ti troviamo dei soldi!». Lui non voleva ma io l’ho zittito bruscamente: «Dai tuoi parenti non li prenderesti? Da tua sorella non li prenderesti? Ecco, noi siamo i tuoi parenti!».Lui stava venendo a casa mia per prendere i soldi; era sera piuttosto tardi. Nel metro degli incivili lo hanno preso di mira. Gli hanno buttato via il berretto, lo spintonavano, lo insultavano.
Una donna anziana si è intromessa, e ha detto: «Guardate che mani ha, ragazzi. Ha lavorato tutta la vita. Ma non vi vergognate?».
Non so come mai si siano vergognati. Muslim mi ha raccontato che hanno raccattato il suo berretto, lo hanno scosso e gli hanno detto: «Ok, scusaci babbo!».
«Mi hanno chiesto scusa, ti rendi conto? – diceva Muslim sconvolto, – Pensavo che mi avrebbero ammazzato. E loro mi hanno chiesto scusa…».
Io cerco sempre di non piangere davanti ai genitori dei «nostri bambini», ma quella volta abbiamo pianto insieme.
Perché vi racconto questa storia adesso?

Non saprei cosa dire della morte del bimbo tadžiko a Pietroburgo [nell’ottobre 2015 la polizia ha arrestato una coppia di tadžiki senza permesso di soggiorno e le ha portato via il figlio di 5 mesi, che è morto poco dopo – ndr], so troppo poco di quello che è successo. Ma una cosa è chiara: quell’anziana signora nel metro si ricordava ancora che siamo fratelli. Tutti coloro che ci aiutano a raccogliere soldi per curare Bashat si ricordano che noi siamo la famiglia di Muslim Mamedov.
Non potremmo, magari, provare a educare anche i figli in questo modo?
Almeno per istinto di sopravvivenza. Perché la ferocia bestiale nella società non è diretta in un’unica direzione. Avvelena tutto l’organismo, come un tumore…