19 Dicembre 2018

L’anima pellegrina della Russia esposta in Vaticano

Giacomo Foni

In esposizione nei Musei Vaticani, 54 opere di artisti russi che, in forme e modi diversi, tracciano il cammino dell’anima russa alla ricerca del significato ultimo. Nell’Introduzione al catalogo Ol’ga Sedakova ne dischiude il senso profondo.

Si è aperta lo scorso 20 novembre, nel Braccio di Carlo Magno dei Musei Vaticani, la mostra Pilgrimage of Russian Art. From Dionysius to Malevich , che raccoglie 54 opere provenienti dalla Galleria Tret’jakov e da altre pinacoteche russe. Si tratta di fatto della seconda tappa di un dialogo già avviato nel 2016 con la mostra Roma aeterna, quando 42 dipinti della Pinacoteca Vaticana furono esposti a Mosca con grandissimo successo di pubblico. Oltre ad alcune bellissime icone del XV secolo, si potranno ammirare fino al 16 febbraio artisti del calibro di Repin, Kramskoj, Ge, Vrubel’, Kandinskij, Malevič: una proposta eclettica, eterogenea, che a volte arriva perfino a disorientare il visitatore, dato che icone russe antiche come Il giudizio universale vengono direttamente accostate al Quadrato nero di Malevič o a dipinti realisti dell’Ottocento.

Eppure, è proprio da tali contrasti che emerge più forte quell’«unità dell’anima spirituale russa» che la mostra, secondo le parole della direttrice dei Musei Vaticani Barbara Jatta, intende sottolineare. «Lo sguardo russo – le ha fatto eco Zel’fira Tregulova, direttrice della Galleria Tret’jakov – desidera sempre cogliere il significato metafisico, al di là dei confini del visibile»: e tale afflato escatologico costituisce il comun denominatore di esperienze apparentemente lontane, il filo rosso che unisce le discontinuità storiche e culturali in un’unica grande domanda di significato. La presenza di Pilgrimage nel titolo dell’esposizione è in fondo piuttosto indicativa e riporta immediatamente alla mente l’idea – a volte esaltata da scrittori e filosofi in modo fin troppo romantico – dell’anima russa pellegrina, alla ricerca continua della verità ultima.

Speranza delle curatrici è anche che, in un mondo così diviso, la mostra sia occasione e ulteriore passo di confronto tra Oriente e Occidente: «La bellezza crea ponti, avvicina culture diverse e rende tutti fratelli» (Barbara Jatta) e «un capolavoro, nella concezione russa, non deve essere solo un’opera di altissima qualità, ma una dichiarazione universale su un tema che abbia significato per l’umanità intera» (Zel’fira Tregulova).

Le tappe del cammino russo tra bellezza e verità: Ol’ga Sedakova

Quanto al contenuto dell’esposizione, lo approfondisce lo splendido articolo di Ol’ga Sedakova, A cielo scoperto, pubblicato nel catalogo della mostra, che ne costituisce una sorta di radiografia ragionata. Come nota Sedakova, il cammino artistico delineato dai quadri esposti rispecchia in tutto e per tutto il burrascoso percorso storico russo, che non si è evoluto in modo graduale, ma per improvvisi strappi, brusche svolte e tappe di successiva autonegazione: il passato viene accantonato e negato di fronte alla prospettiva improvvisa e vertiginosa di un mondo nuovo. Tale psicologia è ben sintetizzata da Pasternak nelle parole di Jurij Živago, che confuso e quasi intimidito, confessa a Lara le sue riflessioni sulla rivoluzione di febbraio: «Pensate che tempi sono questi! (…) Cose tanto incredibili accadono solo una volta nell’eternità. Pensate: alla Russia intera è stato strappato via il tetto, e noi con tutto il popolo ci siamo trovati di colpo allo scoperto, sotto il cielo [da qui il titolo dell’articolo, – Ndr]. (…) La libertà! La vera libertà, non quella a parole, non quella delle rivendicazioni, ma una libertà caduta dal cielo, superiore a ogni aspettativa». (B. Pasternak, Il dottor Živago). «Un inizio inaudito – continua Sedakova – che viene prima di ogni storia, senza nessuna istanza culturale, politica, quotidiana a mediare». Ebbene, questa esaltante parusia, questo avvenimento «unico per l’eternità» si è paradossalmente riproposto in modo ciclico nella storia russa: ad esempio, con il passaggio dall’epoca pre-petrina a quella petrina (uno stravolgimento colossale dal punto di vista storico-culturale), e poi con la rivoluzione del 1917, densa di attese apocalittiche e di speranze palingenetiche. Avvenimenti diversi forse, ma comunque accomunati dal desiderio di gettarsi alle spalle il foglio accartocciato della storia e di iniziare a scrivere sulle pagine bianche della società nuova e dell’uomo nuovo. «Ecco, forse la disponibilità a trovarsi “sotto il cielo aperto”, il desiderio inconscio di ciò, sono il fattore comune che si può cogliere nelle varie svolte della cultura russa, nei suoi artisti e pensatori».

E dunque, quali sono nel concreto i passi in cui si declina questa tensione escatologica, questo prorompente desiderio di novità e libertà?
Il primo vertice della spiritualità russa, punto di fuga di ogni aspirazione umana e celeste è certamente l’icona, universo artistico complesso, che non a caso viene tradizionalmente definita «teologia del colore». «Le icone – scrive Sedakova – parlano dei misteri della fede in modo diverso ma non meno efficace dei trattati teologici (…). È una teologia non discorsiva, ma liturgica e orante. (…) Sarebbe non solo una semplificazione, ma un significativo travisamento vedere nell’icona «un racconto per coloro che non sanno leggere». (…) Nella sua declinazione più alta l’icona non è una narrazione, né un’illustrazione: è più atto che oggetto, testimonia e offre a chi la contempla l’immagine della presenza di Dio». Una presenza dunque che ha come elemento connaturato e caratterizzante la Bellezza, luminosa e numinosa, che rischiara e trasfigura l’umano. Quello dell’icona è un mondo bellissimo perché già emendato dal peccato, in cui la risurrezione è già presente, un mondo salvato e trasfigurato, riportato cioè alla purezza originale con cui l’aveva pensato la Sapienza divina. Ciò si rende particolarmente evidente nelle raffigurazioni di Cristo, ad esempio nella Crocifissione di Dionisij: «È una croce di vittoria, Crux gloriae e Crux triumphans, e non una Crux passionis, croce di passione. In Dionisij il mondo è già sconfitto, la gravità e la morte sono già superate, il cielo e la terra sono già trasfigurati nel momento stesso della passione. La visione del mondo trasfigurato e glorificato nella profondità della nostra vita terrena, (…) del mondo immortale o risorto, del mondo dell’infinita misericordia, purezza e forza – è l’eredità del secolo d’oro dell’iconografia russa, la sua silenziosa teologia del colore».

Tuttavia, con il passare dei secoli la consapevolezza del valore dell’icona viene meno; l’epoca petrina introduce una decisa secolarizzazione nella classe colta, che volta le spalle al suo passato e si rivolge all’Europa occidentale illuminista. Si crea gradualmente una frattura, che si trascinerà fino alla rivoluzione del 1917, tra élite culturale «laica e progressista» e «popolo e clero», ancorati a un mondo tradizionale e «bizantino». Il XIX secolo poi rende ancora più profonda tale scissione: i nuovi maestri della società sono poeti, filosofi e romanzieri (Nekrasov, Belinskij, Dostoevskij, più tardi Tolstoj). Mutano anche i punti di riferimento e i paradigmi degli artisti, la loro ricerca spirituale imbocca altre strade; alla luce sofianica dell’icona si sostituisce quella più cruda del realismo, i Santi della tradizione vengono soppiantati da decabristi, rivoluzionari, populisti dediti al servizio del popolo sofferente. Il mondo trasfigurato dalla luce del Tabor lascia spazio a un mondo «sbagliato», a scene di vita quotidiana e quadri di denuncia sociale (come la famosa Trojka di Perov, che raffigura tre emaciati bambinetti nell’atto di trascinare un pesantissimo carico, o L’annegata, dello stesso artista).

Questa nuova mistica del sofferente e del misero non rompe i legami con la figura di Cristo, ma anzi ne fa un caposaldo, cogliendone ed esaltandone aspetti diversi, più terreni. Ancora una volta è l’Occidente a mostrare ai russi un Cristo carnale, a volte calcando fin troppo la mano sulla Sua umanità, come dimostrano i Cristi spogliati di divinità di Strauss e Renan. «La religiosità ortodossa tradizionale – nota Sedakova – si soffermava molto poco sul Cristo storico, sul Cristo terreno. La storia evangelica, trasfigurata negli inni liturgici e nelle icone, negli ori delle chiese e nelle fragranze dell’incenso, sembrava già abitare nell’alto dei Cieli, là dove regna il Figlio di Dio. Pensare a un Cristo terreno al di fuori della Sua Divinità, (…) sembrava un’inverosimile insolenza».

I. Kramskoj, Cristo nel deserto (1872).

Il Cristo carnale invece pone agli artisti della nuova scuola «domande che non avevano mai riguardato gli iconografi. I pittori scelgono i momenti più drammatici, più gravosi della vita terrena di Cristo: la tentazione nel deserto (Kramskoj), la preghiera nell’Orto degli Ulivi (Ge, Perov), il dialogo con Pilato e la salita al Golgota (Ge). Con il caratteristico psicologismo dell’epoca, (…) tentano di penetrare in quella condizione di dubbio, tormento, umiliazione. Non sono già più immagini di fronte a cui ci si pone in preghiera, come le icone. Sono un invito alla riflessione e, cosa più importante, al paragone diretto della narrazione evangelica con la realtà contemporanea e con la propria vita. Ovviamente, ciò era un richiamo anche per la società che si reputava pacificamente cristiana, dimenticandosi della radicalità degli insegnamenti evangelici».
Infine, l’ultima brusca svolta a essere rappresentata nella mostra è quella della pittura del Secolo d’argento e delle avanguardie. Il «povero realismo ottocentesco» viene lasciato alle spalle, di nuovo sembra che si spalanchi un cielo incontaminato, gravido di promesse e nuove possibilità; l’attesa di cambiamento, la consapevolezza della fine del vecchio mondo che si approssima si esprimono in modo tangibile nella letteratura, nel teatro e in tutte le arti. L’attenzione e la sensibilità per il quotidiano lasciano spazio alle idee dell’arte pura, alla ricerca di forme e temi nuovi. Per un certo periodo l’arte torna a essere presagio di una realtà numinosa, la bellezza veicolo di un mondo metafisico, diverso da quello della quotidianità: in ciò – nota Sedakova – l’arte del primo Novecento si riallaccia paradossalmente alle icone: «L’avanguardia russa insegna al suo spettatore a vedere di nuovo l’invisibile (…), ciò che non collima con l’immagine abituale delle cose, proprio come le antiche icone. Come un antico isografo, l’artista vuole di nuovo parlare non del realia ma dei realiora». Indubbiamente, continua la poetessa, i realiora dell’artista d’avanguardia sono del tutto diversi da quelli degli antichi iconografi, e non possono essere definiti con i canoni della religiosità tradizionale, ma testimoniano comunque una spiccata tensione verso le cose ultime.

In conclusione, il titolo della mostra Pilgrimage sembra alquanto azzeccato. Da una parte infatti c’è il pellegrinaggio del popolo russo, la cui ricerca di significato ultimo si dipana di quadro in quadro di fronte agli occhi del visitatore; dall’altra c’è il visitatore stesso, chiamato anch’egli a una sorta di pellegrinaggio, a lasciarsi interrogare dalle domande degli artisti russi di varie epoche che, sebbene appartenenti a un mondo culturalmente così lontano, sono agitati dagli stessi interrogativi che albergano ancora oggi nel cuore del moderno uomo occidentale.

Giacomo Foni

Ricercatore e traduttore presso la Fondazione Russia Cristiana, vincitore nel 2015 del premio Russia-Italia attraverso i secoli per la traduzione di Lettere ai Nemici del filosofo Nikolaj Berdjaev. Fra i suoi interessi la letteratura e la cultura filosofica russa, la storia della Chiesa, i problemi legati ai rapporti religiosi tra Oriente e Occidente.

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