16 Aprile 2022

Cristo, al fondo della nostra inguaribile miseria

Giovanna Parravicini

La vittoria delle vittime è chiedere la forza del perdono.

Doveva succedere, prima o poi, inevitabilmente. Ed è successo in occasione del venerdì santo, quando lo scandalo della croce scardina ogni possibile logica umana, e la misericordia divina si mostra in tutto il suo abissale divario dalle nostre misure. La decisione di papa Francesco che nella Via Crucis al Colosseo due donne – una ucraina e una russa – portassero insieme la croce alla XIII stazione («Gesù muore in croce») ha suscitato lo sconcerto e l’indignazione di molti, tra cui numerosi fedeli, di cui si sono fatti interpreti e portavoce l’arcivescovo maggiore della Chiesa greco-cattolica ucraina Svjatoslav Ševčuk e il nunzio apostolico a Kiev Visvaldas Kulbokas.

Eppure, dove implorare insieme «Liberaci dal male», se non ai piedi della croce?

È come se, in questa decisione, si sia svelato lo scollamento – già più volte intuibile in gesti compiuti da Francesco nelle scorse settimane (la scelta di non nominare mai il nome della Russia e del suo presidente, la volontà di incontrare il patriarca Kirill nonostante le sue prese di posizione, la dura condanna della maggiorazione del budget europeo sugli armamenti, la consacrazione dell’Ucraina e della Russia) – tra la radicalità del Vangelo e una mentalità «giustizialista», di cui anche i credenti sono largamente partecipi.

In un duro comunicato monsignor Ševčuk ha definito l’idea «inopportuna e ambigua», perché «non tiene conto del contesto di aggressione militare russa contro l’Ucraina». «Per i greco-cattolici dell’Ucraina, – ha affermato il primate greco-cattolico – i testi e i gesti della XIII stazione di questa Via Crucis sono incomprensibili e persino offensivi, soprattutto in attesa del secondo, ancora più sanguinoso attacco delle truppe russe contro le nostre città e villaggi. So anche che i nostri fratelli cattolici del rito latino condividono con noi questi pensieri e preoccupazioni». E ha concluso: «I gesti di riconciliazione tra i nostri popoli saranno possibili solo quando la guerra sarà finita e i colpevoli dei crimini contro l’umanità saranno condannati secondo giustizia. Spero che la mia richiesta, la richiesta dei fedeli della nostra Chiesa, la richiesta dei fedeli della Chiesa cattolica latina in Ucraina vengano ascoltate».

Attenuata nella forma, ma identica nella sostanza, la posizione del Nunzio, che da un lato riconosce che «sotto la croce siamo tutti figli e figlie di Dio: sia l’aggressore che l’aggredito. In questo contesto, ci sono Russia e Ucraina», ma dall’altro afferma che «la riconciliazione deve arrivare quando si ferma l’aggressione. E quando gli ucraini potranno non solo salvarsi la vita, ma anche la libertà. E, naturalmente, sappiamo che la riconciliazione avviene quando l’aggressore ammette la sua colpa e si scusa».

È un gesto profetico, «segno di contraddizione», quello posto da Francesco, e le reazioni suscitate mettono a nudo tutta la difficoltà di comprendere realmente l’origine ultima del male che si cela in ciascuno di noi, bisognosi uno per uno di perdono e di redenzione, e di accettare quindi la via di Cristo, che «non ha scelto», ma «ha voluto essere unito sia con chi ha ragione, sia con chi è colpevole, che ha abbracciato tutti con un unico amore, l’amore dei patimenti subiti in croce per gli uni e per gli altri», come aveva detto nel ‘68, di fronte ai carriarmati sovietici che entravano in Praga, il metropolita Antonij di Surož.

Alle ragioni, alla misura della «giustizia umana» papa Francesco oppone la necessità di un perdono, di una misericordia incondizionati – l’abbraccio di Cristo al mondo dalla croce – unica condizione possibile perché si possa intravedere una luce in fondo al tunnel di questa guerra

e dei tanti conflitti che insanguinano il mondo. Come ha fatto rilevare padre Antonio Spadaro: «Francesco agisce secondo lo spirito evangelico, che è di riconciliazione anche contro ogni speranza visibile durante questa guerra di aggressione definita da lui “sacrilega”. Per questo ha pure consacrato insieme Ucraina e Russia al Cuore di Maria».

Un gesto, dunque, che vuol essere innanzitutto «una invocazione a Dio perché ci dia la grazia della riconciliazione», prosegue Spadaro. La presenza insieme di due donne provenienti dall’Ucraina e dalla Russia «è una preghiera scandalosa per chiedere una grazia che solamente Lui può dare. La profezia si incunea nei cuori e nelle ombre della storia». E conclude: «Che cosa significa oggi in questa situazione “amare il nemico” (che è il cuore del Vangelo)? Il Papa è pastore universale. Per lui vale quel che ha appena scritto in un tweet: “Il Signore non ci divide in buoni e cattivi, in amici e nemici. Per Lui siamo tutti figli amati”. È terribile e scandaloso. Ma è questo il Vangelo di Cristo».

Cristo, al fondo della nostra inguaribile miseria

Le due donne che hanno portato la croce alla XIII stazione. (twitter)

Irina e Albina, le due donne che hanno portato la croce, sono rispettivamente un’infermiera ucraina del Centro di cure palliative della Fondazione Policlinico Universitario Campus Bio-Medico di Roma e una studentessa russa, del Corso di Laurea in Infermieristica del medesimo ateneo; si erano conosciute l’anno scorso durante il tirocinio, e proprio in questi frangenti hanno capito che la loro amicizia era «più forte di qualsiasi logica divisiva che la guerra vorrebbe imporre». Albina si è messa ad aiutare i profughi ucraini: «In questo momento il popolo di Irina ha bisogno di sostegno. Con una delle mie amiche, anche lei ucraina, inviavamo anche prima della guerra aiuti a famiglie bisognose. Ora stiamo organizzando una scuola di infanzia per aiutare famiglie di rifugiati».

«La nostra amicizia – sono le parole di Irina – nasce all’interno del reparto di cure palliative… Quando ci siamo incontrate poco dopo l’inizio della guerra, Albina è venuta nel reparto. Io ero di turno. È bastato il nostro sguardo: i nostri occhi si sono riempiti di lacrime. Mi emoziono sempre nel ricordare che Albina ha cominciato a chiedermi scusa. In quel momento era veramente inconsolabile. Non riuscivo a consolarla. Lei si sentiva in colpa e mi chiedeva scusa. Io la rassicuravo che lei non c’entrava niente in tutto questo».

«L’odio, prima che sia troppo tardi, va estirpato dai cuori – scrive papa Francesco nel suo libro Contro la guerra. Il coraggio di costruire la pace. – Ogni guerra rappresenta non soltanto una sconfitta della politica, ma anche una resa vergognosa di fronte alle forze del male… Quando l’altro, il suo volto come il suo dolore, ce lo teniamo davanti agli occhi, allora non ci è permesso sfregiarne la dignità con la violenza».

Dolore, senso di responsabilità e di colpa, domanda di perdono… Quante volte queste parole ritornano nei messaggi di tanti amici dalla Russia: di fronte a volti concreti, certo, le vittime in Ucraina, le madri dei caduti, ma ultimamente davanti al Volto che accompagniamo al sepolcro, attendendone trepidanti la resurrezione.

Scrive, ad esempio, padre Vladimir Zelinskij, ex dissidente e parroco ortodosso russo a Brescia, ricordando alcuni episodi in cui si esprime la nuova ostilità con cui lui stesso e la sua comunità vengono guardati, nonostante la loro estraneità alla guerra:

«Ce la siamo meritata? Forse sì. In effetti, si dice che c’è quasi un 80% del nostro paese che sostiene il sognatore del Cremlino (chiaro quale sia il suo sogno, un impero in cui il suo nome brilli come il sole). Un 80% che crede al mito del nazismo ucraino… Ieri ci hanno portato alla liturgia trenta orfani di Char’kov, abbandonati alla nascita dai genitori. Mi hanno parlato di ragazzi, ma in realtà erano persone adulte. Che continuano però a essere orfane, e lo saranno per sempre…

Tutti russofoni, ma per cittadinanza “nazisti”. Ciascuno con la sua ferita, mentale o fisica. Sono venuti a confessarsi, si sono comunicati. E inaspettatamente hanno comunicato a me il senso della mia propria vocazione, che senza questa comunione rischierebbe di essere invasa dalle erbacce.

La si può riscoprire soltanto quando si tocca il fondo della propria orfanezza, della propria inguaribile miseria».

Giovanna Parravicini

Ricercatrice della Fondazione Russia Cristiana. Specialista di storia della Chiesa in Russia nel XX secolo e di storia dell’arte bizantina e russa. A Mosca ha collaborato per anni con la Nunziatura Apostolica; attualmente è Consigliere dell’Ordine di Malta e lavora presso il Centro Culturale Pokrovskie Vorota. Dal 2009 è Consultore del Pontificio Consiglio per la Cultura.

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