13 Agosto 2022

La linea fra il bene e il male

Paolo Polesana

La responsabilità di scegliere il bene riguarda tutti, non solo i belligeranti.

La capacità della guerra di entrare nei cuori e dividere le persone è una realtà amara quasi quanto quella delle bombe, delle violenze, dei giovani mandati a morire. La guerra sembra aver occupato ogni angolo di umanità: in Russia essere amico, fratello, figlio, madre o padre conta meno di essere «pro» o «contro» il presidente e la sua «operazione speciale». Un enorme campo magnetico si è acceso: ha orientato tutte le anime ed ha costruito un gigantesco monolite.

Questo monumento è tanto grande che lo si può vedere anche da fuori della Russia. È una stele scritta su due facce, da una parte stanno le invettive: «Nazisti!», «Fascisti!»; dall’altra stanno parole colme di afflato sacro: «Alziamoci per il nostro popolo!», «Noi non abbandoniamo i nostri!». Una di queste espressioni è finita persino su uno dei missili lanciati su Kramatorsk: «Per i bambini».

La poetessa Ol’ga Sedakova in una recente intervista rilasciata alla Radio della Svizzera Italiana ha spiegato come «l’ideologia imperialista è revanscista, ma anche mistica»: l’attuale propaganda di regime è permeata dalla «fede nella vocazione messianica della Russia», ma mentre un tempo si diceva di voler offrire al mondo il «luminoso avvenire socialista», oggi si parla di distruzione totale, si minaccia di trasformare i nemici in «cenere radioattiva» (vedasi il conduttore televisivo Dmitrij Kiselev).

L’attuale messianismo russo porta con sé un chiaro culto della morte: la morte, subita o inflitta, è l’altra faccia della medaglia del bene. Questo bene è il «russkij mir», il «mondo russo», o, se si prende l’altro significato della parola «mir», la «pace russa», che suona tragicamente come una moderna riproposizione della «pax romana».

Si è detto perfino che questa guerra ha un «significato metafisico». Il «mondo russo» è infatti pensato come un mondo di valori che la legislazione federale russa deve codificare e implementare, un mondo da amare e da difendere anche con la vita.
Per descrivere l’amore che spinge la Russia a proteggere il proprio mondo si usano addirittura le parole di Gesù Cristo: «Mi vengono in mente alcune parole della Sacra Scrittura – ha detto Putin lo scorso 18 marzo spiegando il senso dell’operazione militare in Ucraina, – non c’è amore più grande di questo: dare la vita per i propri amici».
In nome di questo «amore» si denunciano i colleghi non allineati, si interrompono amicizie e legami familiari. Soprattutto si spingono i soldati al fronte.

La linea fra il bene e il male

Manifesto inneggiante alla guerra imbrattato con schizzi di vernice rossa, a Nižnij Novgorod.

Questa guerra è presentata come una guerra di difesa: in Russia si mostrano le stesse immagini tremende che vediamo noi, ma si spiega che a procurare distruzione sono i nazisti ucraini armati dall’Occidente. L’«operazione speciale» difende cittadini inermi aggrediti dai vecchi nemici fascisti, già sconfitti nella Seconda guerra mondiale, ed ora tornati a minacciare chi un tempo aveva liberato l’Europa.

Si difende il «mondo russo» da un Occidente incompatibile con i suoi valori tradizionali, dalla sua immoralità, dalla sua menzogna (ogni informazione non allineata è spiegata come fake-news), dalla sua violenza. Con il bisturi di una «operazione speciale», la parola «guerra» è infatti proibita, ci si difende da un cancro pericoloso.

Dietro all’operazione militare in Ucraina, dunque, non c’è solo una propaganda ben organizzata, ma un apparato valoriale piuttosto esteso. C’è il pragmatismo che giustifica la guerra preventiva, per cui «siamo intervenuti prima che ci attaccassero»; c’è un patriottismo fondato sulla vittoria sul nazifascismo nella Seconda guerra mondiale, chiamata appunto Grande guerra patriottica; ci sono i «valori tradizionali», che lo Stato promette di difendere per legge; c’è perfino l’amore per gli amici, un amore forte che protegge i cittadini dalla malvagità dei nemici; infine, nel bagliore delle armi viene perfino adombrata un’aura religiosa e cristiana.
La cosa sorprendente è che questo apparato valoriale pare funzionare. È diventato una visione del mondo, un modo per distinguere il bene dal male.

Solženycin aveva scritto nell’Arcipelago GuLAG: «La linea che separa il bene dal male passa attraverso il cuore di ciascun uomo». L’odierna dottrina di Stato riformula radicalmente il concetto: «La linea che separa il bene dal male divide i patrioti dagli stranieri e dai loro fiancheggiatori».

Si tratta di due posizioni umane alternative: la prima sveglia la coscienza a verificare ciò che si trova nel cuore e invita al paziente e doloroso lavoro di evitare il male e coltivare il bene; la seconda semplifica il problema in una questione di schieramenti. La prima è la via del riconoscimento della responsabilità personale, la seconda è una semplificazione manichea.

Confrontarsi con queste posizioni è inevitabile: da una parte la tentazione manichea è attiva tanto fra gli interventisti quanto fra i pacifisti; dall’altra il risveglio della coscienza alla responsabilità sul proprio cuore è possibile per ogni uomo. Non è difficile accorgersi di cosa sia in grado di ridestare la coscienza. Ora che il sangue è stato tragicamente versato c’è una pietra di inciampo sul cammino di tutti, un sì o un no a una domanda cruciale: si può uccidere? Questa domanda riconsegna questa vicenda al cuore di ciascuno.


(foto apertura: N. Levitasova, “The start” – instagram)

Paolo Polesana

Dopo la laurea all’università statale di Milano, ha conseguito il dottorato in fisica a Como e ha lavorato nei laboratori laser dell’università di Vilnius (Lituania). Ora è sacerdote diocesano a Bergamo. Da diversi anni collabora con l’Associazione Russia Cristiana

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