5 Dicembre 2022

Una menzogna sincera

Vladimir Zelinskij

Ieri ed oggi in Russia funziona lo stesso meccanismo ideologico, pur rivestito di miti diversi. Ma le somiglianze storiche ci insegnano anche la speranza.

Quando Michail Gorbačev è morto, anzi già molto prima, mi giungeva da internet un coro di voci che spiegava e sottolineava quel che lui non era riuscito a fare. Non ha fatto questo, quella volta ha proprio sbagliato, in quel caso si è rivelato un debole. Può essere.

Ma stranamente – in realtà non è affatto strano, – internet, concentrandosi sulla sua personalità, ha dimenticato la carica che ricopriva. Perché lui, prima dell’incarico presidenziale breve e simbolico, è stato Segretario generale del Comitato centrale del Partito comunista dell’Unione Sovietica, nonché membro del Politburo del Comitato centrale.
Leggete tutto questo per intero, senza fretta.

Gorbačev non ha governato a proprio nome, e nemmeno dall’alto della dignità di re o tanto meno di presidente a vita, ma per conto del mito del Partito-Stato che legittimava il suo potere. E non poteva andare molto oltre i limiti del mito. Rimanendo al suo interno, egli l’ha gradualmente decomposto, dissolvendolo con una serie di gesti (liberazione dei prigionieri politici, elezioni parzialmente alternative, glasnost’ ecc.), e così ha minato involontariamente anche il sistema che dirigeva.

Nessuno avrebbe potuto liberarci meglio dal comunismo di chi lo voleva sinceramente migliorare. È proprio questo concetto che finora è stato più difficile assimilare.

Il mito stesso e le cariche al suo interno sono stati presto dimenticati, al punto da decidere che non sono mai esistiti. Gli errori invece si ricordano. Quando si parla di Stalin o Gorbačev, si mette fra parentesi l’origine del loro potere. E il loro potere nasceva da un sistema di idee. Qualcuno ha scritto (Basil Lourié, credo) che la guerra, come un organismo vivente, obbedisce a leggi proprie. A maggior ragione il mito. Ieri era più vivo che mai, ora è così definitivamente morto da far pensare che non sia mai esistito, che fosse una convenzione. Ma l’oblio stesso era inscritto nel suo destino. È nato, maturato, invecchiato, imputridito, gradualmente evaporato, finché ha esalato lo spirito.

Confrontiamo la guerra attuale in Ucraina con quella del 1940 contro la Finlandia.
Allora si chiamava guerra contro i «finlandesi bianchi». Perché quei finlandesi erano diventati improvvisamente «bianchi»? Perché provenivano dai latifondisti e dai capitalisti dell’anti-mondo non ancora soggiogato dall’Armata Rossa. Gli intellettuali romantici, che rimpiangevano di essere stati troppo giovani per partecipare alla guerra civile, si precipitarono come volontari nella guerra finlandese. E lì persero la vita, come avevano promesso.

Una menzogna sincera

Soldati «bianchi» durante la guerra civile in Finlandia, 1918. (wikipedia)

«Eppur raggiungeremo il Gange, e combattendo moriremo, affinché dal Giappone all’Inghilterra la mia patria rifulga» – aveva scritto il poeta Pavel Kogan1 preparandosi alla battaglia universale contro i «bianchi» inglesi, giapponesi e del restante mondo. Il mondo «bianco» al di fuori dei nostri confini non doveva esistere: ciò che era borghese, «bianco», sarebbe dovuto diventare «rosso». Come oggi con l’ucraino, il «russofobo», che dovrebbe essere trasformato in russo.

Nessuno aveva commissionato una poesia del genere a Kogan (morto, in seguito, nella Seconda guerra mondiale): era la poesia stessa che martellava e ribolliva in lui, riversandosi in versi. La poesia «La mia patria» per quella generazione significava tutto ciò che era giusto e felice, un bel sole raggiante. Come oggi che la patria è dove c’è il russo e l’anti-patria è dove c’è il russofobo. Del «rosso» precedente non rimane nulla, ma «la congiura dei sentimenti», secondo l’espressione di Jurij Oleša2, si è riprodotta con stupefacente precisione. Oggi come allora è in corso «una guerra di popolo, una guerra santa». Una guerra contro tutti coloro che si permettono di non amarci.

«È una guerra soprattutto spirituale» (A. Osipov)3. L’Occidente da sempre odia la Russia e vuole distruggerla. L’imperialismo ha sempre odiato il sistema sovietico e voleva distruggerlo. L’Occidente non poteva sopportare di aver vicino a sé il socialismo, così come ora non può sopportare la nostra grandezza d’animo, il nostro patriottismo e antifascismo. E in generale, se non l’avessimo fatto noi, l’avrebbero fatto loro. L’«Uccidi l’ucraino» di E. Cholmogorov4 è molto più forte dell’«Uccidi il tedesco» di Ehrenburg5, perché comunque l’ucraino non calpesta la nostra terra. Per il resto, in vista della vittoria nessuna perdita ci addolora, anche se sono già innumerevoli. Qualche «io» singolo potrà anche perire, ma il grande «noi» collettivo, raccolto attorno al duce della nazione, vincerà. Perché solo lui è il popolo, mentre le percentuali rimanenti della popolazione sono i traditori.

È impressionante la somiglianza tra la lotta contro il capitalismo (= accerchiamento del nemico), e la lotta contro il fascismo ucraino (= accerchiamento del nemico): sono due gocce d’acqua.

Detto questo, il mito rosso era perlomeno razionale, costruito in modo logico, in grado di spacciarsi per scientifico. Il mito imperiale (color delle nuvole) è viceversa irrazionale, guarda al territorio, al pezzo di terra che ci è destinato da sempre. È il territorio ad essere un feticcio ora, proprio come lo era la lotta per la liberazione della classe operaia.

Nella realtà sovietica, il territorio equivaleva alla verità, e la verità era racchiusa entro i confini dello Stato. Tutto ciò che stava fuori era «nemico». Nel mito socialista territorio e narrazione coincidevano (A. Glucksman). Nel mito imperiale il territorio coincide col sentimento: l’eccellenza spirituale, il collante morale, betulle, icone, razzi e canzoni accorate. Tutto ciò che si trova in territorio straniero è soggetto a distruzione, o quanto meno ad essere annesso al nostro territorio, spazio di verità, bontà e bellezza. E non parlate di bombe sui reparti di maternità, di stupri di tutti, bambini compresi, di cadaveri con le mani legate e segni di tortura… la risposta non tarderà: e allora, la loro russofobia è forse meglio?

Una menzogna sincera

«È il territorio ad essere un feticcio ora, proprio come lo era la lotta per la liberazione della classe operaia».

Il mito guarda con un occhio il pezzo di terra che bisogna possedere ad ogni costo, e con l’altro l’Occidente malvagio che va contrastato ad ogni costo.

Non si tratta dei diversi contenuti dell’ideologia dominante, ma del meccanismo del suo funzionamento occulto. Il punto sta nel caos che si agita sotto all’ideologia, portando in superficie ora un argomento ora un altro, ora un significato ora un altro.

E mi sembra di intravedere dietro entrambe le narrazioni, così diverse l’una dall’altra, quello stesso demone del quale Cristo ha detto che è omicida fin dal principio e che, quando dice il falso, parla del suo (Gv 8,44). Questa non è la menzogna che vuole ingannare, abbindolare, trarre profitto. Questa è una menzogna onesta e sincera, una menzogna contro la vita stessa creata da Dio. Vuoi vestita di comunismo, che voleva conquistare il mondo intero, vuoi vestita di patriottismo, che per ora combatte solo contro l’Ucraina.

E se un bel giorno un altro Gorbačev emergesse all’improvviso da sotto i massi di questo patriottismo sanguinoso, di pietra, pur restando al suo interno, proprio come un tempo quello vero sbucò dalle rovine del marxismo? Arriverà e, con tutta ingenuità, chiederà: ma è nell’interesse della Russia trasformarsi in un mostro e un emarginato, condannato dal 98% del mondo? O lasciarsi strangolare lentamente dalle sanzioni, consolandosi col fatto che l’Europa senza di noi avrà fastidi e soffrirà il freddo? O ridurre la volontà di tutti i suoi cittadini a quella di una sola persona, le cui qualità morali e intellettuali sono – diciamo così – oggetto di discussione? O, in nome di una futura e oscura minaccia, è nell’interesse della Russia mandare al macello (decine di migliaia di morti ammazzati) o spingere all’emigrazione (centinaia di migliaia di fuoriusciti) la popolazione maschile di quella stessa patria che si vuol difendere, quando questa è già di per sé nel buco demografico?

Noi non saremo altrettanto ingenui. Innanzitutto deve logorarsi, esaurirsi il meccanismo ideologico che è stato messo in moto. La speranza – a parte un miracolo, che non si può escludere – è nel fatto che gli idoli hanno una scadenza, non sono destinati a durare per sempre.

Vladimir Zelinskij

Sacerdote ortodosso (del Patriarcato di Mosca) è filosofo, teologo e traduttore. Dal 1991 vive in Italia, ha insegnato lingua e civiltà russa all’Università cattolica di Brescia e di Milano. Ha al suo attivo numerosi testi di teologia e spiritualità.

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