26 Giugno 2022

Il male che ci fa la guerra

Francesco Braschi

Non c’è altra via che il dialogo, che prima di tutto significa accettare la verità e il diritto di esistere dell’altro, anche del nemico.

Mentre vediamo ormai prossima la scadenza di quattro mesi di guerra, è tristemente necessario soffermarci a considerarne le conseguenze. Non ci riferiamo tuttavia ai danni umani (in termini di vite spezzate, di famiglie divise, di comunità disperse o, peggio, annientate) o a quelli economici (direttamente causati in loco dalla distruzione di intere città, di infrastrutture industriali e civili e di vie di comunicazione, ma anche – a distanza – dagli stravolgimenti nell’ambito economico e commerciale di cui tutti sentiamo il contraccolpo: basti pensare alle difficoltà di approvvigionamento alimentare ed energetico) che l’invasione dell’Ucraina da parte dell’esercito russo sta originando: purtroppo in quest’ambito ogni stima non è soltanto presuntiva – poiché basata su calcoli largamente congetturali, data la mancanza di dati esaustivi, – ma anche inevitabilmente e drammaticamente provvisoria, poiché riferita a una situazione tuttora in atto e di cui non sembra intravedersi a breve termine una conclusione, quale che sia, che permetta di ragionare «a consuntivo».

Per cui, nonostante sia davvero triste doverlo riconoscere, non siamo in grado di avere una rappresentazione affidabile né del danno che stanno subendo gli abitanti dell’Ucraina, né di quello che sta toccando l’economia russa – intesa non solo come le grandi cifre macroeconomiche, ma anche relativa al reale impatto sulla vita dei cittadini della Federazione russa, – né di quanto sta interessando l’economia europea e, in particolare, italiana.

Vi è però un altro ambito – solo apparentemente «altro» rispetto a quanto abbiamo detto finora – nel quale possiamo e dobbiamo iniziare una valutazione necessaria e possibile, per quanto amara. Il riferimento è alle conseguenze della guerra a livello del sentire comune, da cui possa partire – per chiunque lo desideri – una valutazione personale dei danni che sta subendo a livello di percezione della realtà, di sé stessi e della circostanza nella quale si configura il destino di ciascuno.

Sotto questo aspetto, non possiamo non menzionare un refrain ricorrente, che è stato più volte espresso prima e dopo le recenti dichiarazioni di papa Francesco a proposito della situazione attuale. In particolare, del pontefice è stato stigmatizzato il fatto che non «faccia nomi e cognomi», e che non abbia pronunciato una recisa condanna non tanto della guerra e della violenza, ma di persone precise;
inoltre, alcune sue dichiarazioni (che naturalmente molti si sono affrettati a definire «improvvide») nelle quali, pur non avendo papa Francesco mai rinunciato ad affermare la differenza tra aggredito e aggressore e a evidenziare chiaramente il martirio del popolo ucraino, si suggeriva una lettura non unilaterale delle ragioni più remote del conflitto e si chiedeva una riflessione sugli atteggiamenti anche della parte occidentale nelle vicende degli ultimi trent’anni, hanno provocato articoli ed editoriali nei quali, più o meno velatamente, si afferma che sarebbe auspicabile un atteggiamento di maggior silenzio da parte del papa.

Il male che ci fa la guerra

N. Levitasova, Speranza [part.], 2022. (instagram)

Ad ambedue queste posizioni vale la pena rispondere cercando di ricordare quali sono i rischi di una personalizzazione del conflitto e di una polarizzazione delle posizioni, e quindi quali siano le ragioni dell’atteggiamento di papa Francesco, che peraltro non prende le mosse unicamente dalla situazione attuale.

Già nell’ottobre del 2020, infatti, nell’enciclica Fratelli tutti (al n. 26) scriveva: «In ogni guerra ciò che risulta distrutto è lo stesso progetto di fratellanza, inscritto nella vocazione della famiglia umana, per cui ogni situazione di minaccia alimenta la sfiducia e il ripiegamento.

Così, il nostro mondo avanza in una dicotomia senza senso, con la pretesa di garantire la stabilità e la pace sulla base di una falsa sicurezza supportata da una mentalità di paura e sfiducia».

Ci pare sia difficile negare a queste parole la capacità di descrivere efficacemente quello che sta accadendo. Lo vogliamo ripetere: pur non dimenticando l’evidente asimmetricità delle due parti belligeranti e la responsabilità in capo a chi ha iniziato con l’invasione del 24 febbraio la guerra in Ucraina, un danno che si sta sempre più verificando a livello ben più esteso è proprio il diffondersi di sfiducia e ripiegamento, fino a ritenere inevitabile la dicotomia noi-altri, che, se da molti era da tempo vista e denunciata come una caratteristica purtroppo tipica di una concezione diffusa nel pensiero russo, oggi sta in modo preoccupante prendendo piede anche dalle nostre parti.

Ma questo atteggiamento non è solo frutto delle circostanze attuali: le sue radici sono assai profonde e le sue conseguenze temibili, come pure evidenziato sempre nella Fratelli tutti (ai nn. 15-16 – i corsivi sono nostri):

«Il modo migliore per dominare e avanzare senza limiti è seminare la mancanza di speranza e suscitare la sfiducia costante, benché mascherata con la difesa di alcuni valori. Oggi in molti paesi si utilizza il meccanismo politico di esasperare, esacerbare e polarizzare. Con varie modalità si nega ad altri il diritto di esistere e di pensare, e a tale scopo si ricorre alla strategia di ridicolizzarli, di insinuare sospetti su di loro, di accerchiarli. Non si accoglie la loro parte di verità, i loro valori, e in questo modo la società si impoverisce e si riduce alla prepotenza del più forte.

La politica così non è più una sana discussione su progetti a lungo termine per lo sviluppo di tutti e del bene comune, bensì solo ricette effimere di marketing che trovano nella distruzione dell’altro la risorsa più efficace. In questo gioco meschino delle squalificazioni, il dibattito viene manipolato per mantenerlo allo stato di controversia e contrapposizione.
In questo scontro di interessi che ci pone tutti contro tutti, dove vincere viene ad essere sinonimo di distruggere, com’è possibile alzare la testa per riconoscere il vicino o mettersi accanto a chi è caduto lungo la strada? Un progetto con grandi obiettivi per lo sviluppo di tutta l’umanità oggi suona come un delirio».

È chiaro come molto di quanto è descritto possa essere riscontrato in quanto sta accadendo dal 24 febbraio (e non solo da allora). Ma sarebbe travisare il pensiero del papa pensare che queste parole siano state scritte per fornire una base eticamente accettabile per alimentare la contrapposizione. Al contrario, le parole che abbiamo appena riportato suonano oggi come un invito rivolto a tutte le parti in causa – e, prima ancora, a tutte le donne e gli uomini di buona volontà – perché

riprendano seriamente una pratica della ragione e del pensiero che riconosca quali possono essere i rischi insiti nel desiderio di annientamento dell’altro, fosse anche del nemico più impresentabile.

Quando papa Francesco scrive che nella prassi di negare «ad altri il diritto di esistere e di pensare» l’esito è quello che «non si accoglie la loro parte di verità, i loro valori, e in questo modo la società si impoverisce e si riduce alla prepotenza del più forte», non assume una posizione qualunquista o irenistica, ma piuttosto proclama apertamente – e, per molti, scandalosamente – che non è possibile pensarsi come padroni della verità, come definitori della verità, in modo da negare che ve ne possano essere delle parti – magari delle scintille e dei frustoli – anche in chi oggi ti è nemico. E che il mancato riconoscimento di questo è alla fine un impoverimento per tutti, fino a ritenere impossibile che possa esistere «un progetto con grandi obiettivi per lo sviluppo di tutta l’umanità».

La perdita di questo orizzonte è ciò che ci stiamo giocando. Ora. Può essere scomodo ricordarlo, ma è necessario.


(foto: 0629com.ua)

Francesco Braschi

Sacerdote, dottore in Teologia e Scienze Patristiche, dottore della Biblioteca Ambrosiana di Milano e direttore della Classe di Slavistica dell’Accademia Ambrosiana. È consultore della Congregazione del Rito ambrosiano e docente a contratto di Teologia all’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano.

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