7 Settembre 2023
La Russia deve scegliere tra fato e libertà
Presente al Meeting di Rimini 2023, lo scrittore russo ci ha raccontato del peccato originale che vede nella storia russa, e della forza morale dei tanti che resistono non per abbattere il sistema, ma per affermare la propria dignità. (Nostra intervista).
Michail Pavlovič, Lei ha una visione molto critica della storia russa, ma ci sono momenti, persone nei quali si manifesta la verità autentica del mondo russo?
Alla sua domanda risponderei che tutte le manifestazioni del «mondo russo» sono parte del mondo russo: Putin, Buča, il GULag da una parte, e dall’altra Rachmaninov e i film di Tarkovskij. Tutte queste cose sono parte del mondo russo, che è come un Giano bifronte.
Sempre da una parte avremo Stalin e dall’altra Šostakovič. Perché? Bisogna guardare la storia, infatti non è cominciato tutto ora, è sempre stato così.
Quello che succede da noi oggi ha cominciato ad accadere mille anni fa, quando il territorio della Russia attuale era parte dell’Orda d’oro, dominio dell’impero mongolo, che funzionava secondo una legge elementare: una piramide di schiavi al cui vertice c’era il khan, lo zar. Nessuno aveva diritti, né proprietà privata; quello che possedevi era tuo solo nella misura in cui eri leale al potere, se smettevi di esserlo perdevi tutto. Questa stessa piramide si è ricostituita di continuo; era così sotto Stalin, ed è quella che abbiamo anche oggi. Gli oligarchi sono ricchi finché sono fedeli, basta vedere quello che è successo a Chodorkovskij: nel giro di 20 minuti puoi perdere tutto e finire in prigione. Tutta questa struttura può sussistere solo in base a un’unica legge, quella della violenza, della forza. Qui non c’è niente che somigli ai principi occidentali nati nel 1700 come l’uguaglianza, la libertà, la fraternità. Qui domina la legge della galera: il più forte si prende la branda migliore, vicino alla finestra, mentre il debole sta vicino al cesso. E secondo questa stessa legge oggi vive il nostro paese.
Lei mi chiederà da dove saltano fuori, allora, Šostakovič o Rachmaninov… Questa gente al sistema è assolutamente inutile. A Stalin Šostakovič non serviva per niente, infatti aveva proibito la sua musica e lo avrebbe messo in lager volentieri. Ma c’era l’America, dove avevano organizzato un congresso per la pace, e bisognava salvare la faccia, così ci hanno mandato Šostakovič per mostrare il volto umano del regime, e lui ci è andato perché era servo del sistema, ha accettato la missione di creare l’apparenza della cultura, della musica, della letteratura. Ma quando si è in guerra con l’Occidente, come adesso, tutta questa apparenza non serve, non serve la cultura. Oggi se ti occupi di cultura in Russia devi cantare canzoni patriottiche, oppure stare zitto, oppure emigrare. Questa cultura è buttata al macero, e il regime ha mostrato ad abundantiam che il peggior nemico della cultura russa è il governo russo.
E dunque da dove arriva in Russia la cultura? Nel XVIII secolo la Russia era in guerra col resto del mondo e aveva bisogno per questo di moderne tecnologie militari, ma gli schiavi non sono creativi, così sono andati a prenderle in Occidente; ma per far funzionare i cannoni ci volevano gli uomini, e la Russia si è aperta anche agli occidentali, quindi anche alle idee di Voltaire, ai concetti di libertà, fraternità, uguaglianza.
Così in Russia è nata l’idea di una cultura assolutamente ostile al sistema, e così sono nate le due Russie: una, per così dire, europea, e l’altra «classica», mongola, che si combattono ormai da 200 anni. Nel febbraio del 1917 ha vinto la Russia europea, la democrazia, il diritto, le donne hanno ottenuto diritti che le donne svizzere non si sognavano neppure. Ma lo Stato di diritto, che noi capivamo e apprezzavamo, per 150 milioni di contadini rappresentava il caos. Nella loro visione la Russia era un’isola, sacra, circondata da nemici e solo lo zar la poteva salvare; insomma, quella che per noi era la nuova Russia libera, per questi milioni era l’anarchia, il caos in cui non si può vivere. E i bolscevichi hanno usato l’idea del comunismo per restaurare la piramide del potere.
Poi abbiamo vinto una seconda volta nell’agosto del 1991, quando il vecchio sistema ha cercato di ricostituirsi, senza riuscirci. È stato un nuovo tentativo di riportare la Russia nel consorzio umano, lasciandosi alle spalle il sanguinoso XX secolo e cominciare una nuova vita. Ma questa possibilità piaceva solo a una piccola parte della popolazione con mentalità europea, per i restanti 150 milioni di cittadini era il caos che chiedeva un nuovo ordine, cosa che porta dritto alla dittatura.
La massa continua a sentirsi solidale col governo?
Una bella domanda. Secondo me la condizione necessaria per la democrazia è la presenza di una massa critica fra i cittadini che sappia cos’è la democrazia. Del resto l’attuale dittatura putiniana ha imparato dagli errori della dittatura sovietica, che era una prigione dalla quale non si poteva scappare perché gli schiavi servivano, così negli anni ’90 è nata una dittatura in forma aggiornata, basata esclusivamente sulla vendita di gas e petrolio in Occidente, che non spartiva i soldi con la popolazione ma li accumulava al vertice, e però era una dittatura coi confini aperti.
È stato Medvedev, durante la sua presidenza, a formulare esplicitamente questa posizione: chi non è d’accordo con noi se ne vada.
E infatti negli ultimi 25 anni milioni di russi hanno lasciato il paese, sarebbero stati la spina dorsale di uno Stato potenzialmente democratico. Sono emigrati e operano in paesi democratici come l’America, la Germania o Israele, ma con loro la Russia ha perso dei cittadini potenziali per il suo futuro.
Ma la dittatura li ha spinti volontariamente fuori dal paese. Quando è stata indetta la mobilitazione, l’anno scorso, mi chiedevo come mai non chiudessero i confini, così centinaia di migliaia di russi sono usciti. Ma è stata una scelta molto intelligente: si immagina decine di migliaia di giovani ostili al sistema che hanno in mano un kalašnikov? Invece così il sistema si è liberato di loro e sono rimasti solo quanti sono fatti su misura per il sistema, sono mentalmente schiavi, dipendono in tutto e per tutto dallo Stato, dal khan, e credono nella sacralità del potere.
Perché non sembri una posizione troppo fatalistica, in tutto questo la libertà non ha nessun ruolo? Almeno in persone come quelle di Memorial?
Certo, hanno un ruolo molto importante. Come si era visto già nell’agosto del 1968, quando otto persone sono andate sulla piazza Rossa a protestare contro l’invasione della Cecoslovacchia. Lo hanno fatto per se stesse, per essere in pace con la propria coscienza, ma per il paese non hanno avuto alcuna importanza, nessuno è venuto a saperlo, e loro praticamente si sono suicidati, hanno rovinato la vita a sé e ai loro cari, sono finiti in prigione.
Uomini simili ci saranno sempre, e sono importanti per preservare la dignità. Loro hanno preservato la propria dignità personale, ma allo stesso tempo anche quella dell’intero paese (che non se lo meritava proprio) e dell’umanità intera.
Oggi, da quando è iniziata l’invasione un anno e mezzo fa, il mondo si è chiesto stupito come mai i russi non protestassero in massa, perché non ci fossero scioperi… In effetti delle persone hanno manifestato, in ogni città, da soli, in gruppo, ma dove sono ora? Tutti in prigione. E quindi si spiegava il fatto che la gente non andasse in piazza dicendo che aveva paura. La paura, in effetti, è stata la strategia di sopravvivenza per generazioni; se non tiri su la testa non te la tagliano, e quindi stiamo zitti e fermi. Puškin aveva stigmatizzato questa strategia di sopravvivenza alla fine del suo dramma storico Boris Godunov: «Il popolo tace».
All’inizio della guerra tutto il mondo ha protestato ma la Russia ha taciuto, in Russia «il popolo tace», e tutti pensano che sia per paura…
Poi arriva la mobilitazione e centinaia di migliaia di ragazzi vanno obbedienti alla morte, a morire e ad uccidere gli ucraini. Questo non è il popolo che tace ma qualcosa di più; non è più l’istinto di sopravvivenza ma qualcosa di molto peggio: è la popolazione russa che da generazioni si è abituata a identificarsi con lo Stato.
Tra me, tra la mia Russia e quella Russia esiste un baratro di civiltà. Noi viviamo nel XXI secolo, abbiamo percorso il cammino di sviluppo dell’umanità, che dalla coscienza tribale è approdata alla coscienza personale. Sono io a decidere cos’è bene e cos’è male, e non lo zar di turno. E se vedo che il mio paese fa il male, io sarò contro. Invece la maggioranza della popolazione russa vive nel passato, ha conservato una mentalità tribale: la nostra tribù è buona, tutte le altre sono nostre nemiche, ci vogliono distruggere, per questo dobbiamo difendere la patria. Per questo i nostri nonni hanno combattuto contro i nazisti. E noi oggi difendiamo noi stessi, i nostri bambini, la patria dai nazisti ucraini.
Così era anche mio papà, nonostante che suo padre, mio nonno, fosse morto nel GULag. Stalin aveva ucciso mio nonno, eppure mio padre a 18 anni era andato in guerra contro i nazisti tedeschi, per difendere la patria. In realtà difendeva non la patria ma il regime, gli assassini di suo padre. Ma lui per tutta la vita si è identificato con la vittoria, come tutta la sua generazione: abbiamo vinto noi, abbiamo liberato l’Europa da Hitler. E quando ho cercato di spiegargli che loro avevano semplicemente portato un nuovo fascismo, che non avevano liberato i paesi baltici, né la Polonia, ma avevano portato un nuovo fascismo, non lo poteva accettare: «Noi siamo i buoni, noi siamo i liberatori!».
È vero che si può far cambiare mentalità alla gente, ma per farlo ci vuole lo Stato, attraverso la scuola. Fu lo Stato in Germania a occuparsi della denazificazione alla fine della guerra. In Russia lo Stato non fa che corrompere i cittadini, come si faceva in Germania negli anni ’30. La gente ha bisogno di una norma: nel 1933 sono uscite le leggi sulla razza, dunque lo Stato aveva fatto dell’antisemitismo la norma. Dopo la guerra la nuova norma è stata il divieto dell’antisemitismo. In Russia la norma che viene diffusa in tutte le scuole è che noi viviamo solo per dare la vita in difesa del paese. Quand’ero piccolo a scuola non ci dicevano altro, e oggi è lo stesso.

Šostakovič al Congresso mondiale per la pace di New York. (polzam.ru)
Il nazionalismo, secondo Lei, è connaturato all’animo russo o gli è imposto dall’esterno?
Tutto quello che abbiamo nell’animo ci viene dal di fuori. Qui va a pennello un aforisma di Koz’ma Prutkov [pseudonimo dietro il quale nel XIX secolo si celavano diversi autori satirici]: l’uomo è come una salsiccia, quello che è dipende da quel che gli hai messo dentro. Succede proprio così, ai bambini spiegano fin da piccoli che il futuro dei maschietti è essere soldati, e quello delle bambine essere crocerossine; tutti i film parlano sempre e solo di guerra, dove i russi sono i buoni e i fascisti sono i cattivi.
Ed ogni generazione ha avuto la sua guerra. Prenda me: sono cresciuto nel dopoguerra, eppure ho visto la Cecoslovacchia, ho visto le guerre in Africa, ho visto l’Afghanistan, ho visto la Cecenia. Secondo me questa è la dimostrazione che esiste il mostruoso sistema mongolico per il quale gli uomini non sono che rotelline, che pensano di difendere la patria. Ricordo il mio stupore nel 1995, appena iniziata la prima guerra cecena – allora eravamo ancora liberi e mostravano tutto alla televisione – un giornalista (chiaramente contro la guerra) ha chiesto a un soldato russo: cosa ci fai qui in Cecenia? E lui: difendo la patria. Un soldato russo va in Cecenia ad ammazzare i ceceni ed è sinceramente convinto di difendere la patria.
È gente che si identifica con questo, come mio padre che per tutta la vita si è identificato con la guerra e la vittoria. Questa gente non ha nient’altro che questo, non gli hanno dato niente, sono schiavi.
Lo stesso accade ora con le centinaia di migliaia di ragazzi mobilitati che sono andati a difendere la patria. Non sanno pensare con la loro testa, fare due più due e chiedersi quale patria difendono in Ucraina. Sono nazisti ma non si riesce a fargli capire che i nazisti sono i russi.
Un papà, il cui figlio è morto in Ucraina, ha scritto sui social: era un soldato, ha compiuto il suo dovere, ne sono orgoglioso. Può sembrare che sia facile cambiare l’anima della gente, entrargli nella testa, ma è difficilissimo. Dicono che se l’opinione pubblica russa avesse accesso all’informazione alternativa la penserebbe diversamente, ma non è vero, per anni c’è stata l’informazione indipendente, c’era la scelta tra le due verità.
Prendiamo quel papà: a lui Echo Moskvy dice: tuo figlio è un fascista, gli ucraini volevano entrare in Europa, fare a modo loro, e invece lui è andato lì ad ucciderli, devi vergognarti di lui, sei padre di un fascista. L’altra verità, quella della televisione, dice: tuo figlio è un eroe. I nazisti ucraini ammazzavano i bambini russi, lui è andato in Ucraina a difendere la lingua e la cultura russa, Puškin e Čajkovskij. I nazisti lo hanno ucciso ma tu sei padre di un eroe di cui devi andar fiero. Quale verità sceglierà l’infelice padre del soldato morto in Ucraina?
Queste due Russie così diverse, quella di Šostakovič e quella di Prigožin sono nettamente separate? Solženicyn diceva che la linea tra il bene e il male passa nel nostro cuore…
Certo, una chance c’è sempre. Tuttavia per un paese è difficile prendersi per i capelli e tirarsi fuori dal pantano come il barone di Münchhausen, mentre per il singolo c’è sempre la libertà di scelta. Per questo mi fa male vedere persone che mi erano prossime, con cui condividevo i valori, scegliere liberamente di stare dall’altra parte, così che oggi ci guardiamo come nemici.
Nel 2014, quando è scoppiata la vicenda della Crimea, la linea del fronte si è insinuata fra di noi, in ogni famiglia. Nel 2010, ho partecipato al festival «Kievskie lavry» dedicato alla poesia russofona. Ricordo bene che eravamo tutti insieme coi poeti ucraini e c’era un forte senso di unità, c’era la percezione di un compito comune attraverso la cultura. Poi è arrivato il 2014 ed ora dei poeti che stavano attorno a quel tavolo alcuni sono contro la guerra, altri sono diventati militaristi e parlano negli stadi per chiamare a combattere contro gli ucraini. Come può succedere una cosa simile? Leggevamo e amavamo gli stessi autori, avevamo una cultura comune, perché ora sono dall’altra parte del fronte?
Certo, Lei ha ragione, è la libera scelta di ogni singola persona. Solo mi chiedo perché la gente fa la scelta sbagliata?
Probabilmente è anche una questione di educazione. Memorial ha cercato di svolgere un’azione educativa organizzando per anni un concorso storico per le scuole, per far sì che i ragazzi ricostruissero la verità della propria famiglia, del paese. Non è forse questo tentativo di creare cittadini nuovi che può far uscire dal circolo vizioso di un paese fatalmente sempre uguale a se stesso?
Assolutamente sì. Queste iniziative dal basso sono molto importanti e tuttavia, senza il sostegno dello Stato sono condannate; se la macchina dello Stato è contro, le iniziative muoiono. Si troverà sempre gente che dal basso cercherà di cambiare la Russia, ma la domanda è: come fare perché lo Stato non li sopprima, non li scacci dal paese e invece li sostenga?
Resta vero quello che Lei ha detto sulle scelte libere, l’iniziativa di compiere il bene dal basso, ma tutto ciò richiede sostegno. Queste iniziative libere, non coercitive, tendono a trasformare la società in modo non coercitivo. Nel 2011-13 ci fu un tentativo di rivoluzione non violenta, centinaia di migliaia di cittadini sono scesi su viale Sacharov, c’ero anch’io tra loro. Volevano forzare la mano al Cremlino senza armi; sicuramente era un cambiamento della Russia su basi del tutto nuove.
Ma cosa può fare una protesta disarmata contro la violenza? Lo abbiamo visto in Bielorussia: la protesta disarmata di una splendida gioventù che scesa in strada ha trovato i mitra. La protesta non violenta contro la violenza non ha alcuna chance.
Pensa che ci possiamo augurare una rivoluzione armata per la Russia? Io sono assolutamente contrario perché la violenza porta solo violenza. È un pendolo che oscilla avanti e indietro.
Ricordo sempre un passo di Gogol’ nelle Anime morte, dove paragona la Russia a una trojka lanciata in una corsa folle verso il futuro, ma quello che per loro era il futuro per noi è l’orribile passato: il XX secolo coperto di sangue. Penso che se l’avesse scritto oggi avrebbe paragonato la Russia a un treno del metrò, che va su e giù nel tunnel e non ha altre possibilità: da una parte c’è l’ordine, la dittatura, dall’altra il tentativo di costruire la democrazia, ovvero caos e anarchia.
Noi abbiamo visto questo movimento della Russia: nel 1917 ha creato la libertà ossia l’anarchia, ed è tornata all’ordine staliniano, talmente solido che ha cominciato a franare solo negli anni ’80 con Gorbačev. Negli anni ’90 altro tentativo di costruire la democrazia, il caos, l’anarchia, ed ecco che noi sul vagone siamo tornati indietro alla dittatura putiniana. Dopo Putin ricomincerà la lotta per il potere. Ricomincerà il caos, e siccome vivere nel caos è impossibile, il popolo chiederà ordine e sicuramente si troverà qualcuno che riporterà la Russia all’ordine.
Non si può uscire da questo circolo vizioso?
Si deve, e lo vorrei molto, ma non so come. Non si può dire: visto che non se ne esce non vale neanche la pena lottare… Io penso che per la democrazia in Russia si debba assolutamente lottare anche sapendo che non si vincerà. La lotta è molto più importante dell’esito. Le otto persone scese sulla Piazza Rossa nell’agosto del ’68, lo hanno fatto sapendo che non avrebbero vinto. Ma si trattava della loro vita, era la loro vittoria personale.
Allo stesso modo quelli che vanno in piazza oggi contro la guerra sanno che non vinceranno, ma è una vittoria per loro; in Russia bisogna combattere «per» qualcosa, per la democrazia di sicuro, però bisogna mettere in conto che non vinceremo il regime, ma sarà la nostra personale vittoria contro la guerra. Questo continuo a dirlo, lo scrivo dappertutto, su tutti i giornali, lo ripeto in televisione. So che non porterà a niente, ma continuo a farlo perché questa è la mia piccola, personale vittoria contro questa guerra, così come posso, e io posso soltanto parlare e scrivere.
Per me è importantissimo parlare in russo, perché con questa guerra il regime putiniano ha fatto del russo una lingua di assassini. E io ho la missione di dimostrare che il russo è un’altra cosa, che non appartiene a Putin né a Prigožin, ma come ogni altra lingua appartiene alla cultura mondiale. La cultura russa non fa parte di questo sistema di schiavi.
Alla dittatura serve solo la guerra e un nemico; la cultura russa è ciò che si oppone al silenzio. È vero, il popolo tace, ma a questo silenzio si può contrapporre solo la parola. Questo è il mio lavoro: combattere la guerra con la parola.
Forse è importante anche per l’Occidente, che non vuole ascoltare?
Purtroppo a lungo nessuno ha voluto ascoltarmi. Per me il regime putiniano è stato chiaro sin dall’inizio. Per questo quando ci sono state le Olimpiadi [Soči, 2014], quando c’è stato il campionato del mondo di calcio [2018], ho scritto per ogni dove che bisognava boicottarli: chi volete sostenere, un paese preso in ostaggio, dei banditi?
La Svizzera ha collaborato costruendo a Soči uno chalet, dove il presidente svizzero ha baciato gli stivali al dittatore. Subito dopo la fine delle Olimpiadi invernali è cominciata la guerra, con l’annessione della Crimea. Ma nessuno mi ha ascoltato. Passano quattro anni, e nel 2018 ecco il campionato del mondo di calcio, eppure la guerra era in corso da quattro anni, e c’erano migliaia di morti. Tutti avevano capito chi era l’aggressore, ed io parlavo in televisione, scrivevo sui giornali che bisognava fare il boicottaggio. Ma da una parte c’era la morale e dall’altra i miliardi che girano attorno alle squadre di calcio e alle tifoserie. E così tutte le nazioni sono andate in Russia a giocare a calcio davanti a Putin; per lui questo era stato un segnale chiaro: il mondo appoggia la mia aggressione, posso andare avanti; proprio in quel momento si è aperta la porta sul 24 febbraio 2022.
Lo stesso giorno dell’invasione il presidente della Confederazione svizzera ha detto: noi siamo un paese neutrale. Tutti gli altri paesi concordano sulle sanzioni contro la Russia, ma la Svizzera no.
Il 25 febbraio mi invitano ad «Arena», il principale talk show politico della tivù elvetica, e io dico tutto quel che penso, che questo è il funerale della neutralità svizzera, che noi siamo già in guerra… Forse è stata come l’ultima goccia, fatto sta che si è visto come funziona la democrazia: se nelle dittature il popolo sta in basso e il regime è totalmente autonomo, in democrazia tu attraverso la tivù e la stampa puoi agire su una parte dell’opinione pubblica, e siccome i politici sono eletti dal popolo, non possono rischiare di non essere rieletti, devono accontentare gli elettori, e così è successo in Svizzera.
Alla fine ho sfondato il muro della neutralità contro il quale avevo sbattuto per anni: dopo quella serata televisiva il presidente ha annunciato che avrebbe aderito alle sanzioni contro la Russia. Per la prima volta la Svizzera ha rinunciato alla propria neutralità. È stata una mia piccola vittoria personale, e dunque andrò avanti a lottare.

Il Pannello dell’Amicizia al villaggio olimpico di Soči. (american_rugbier, wikipedia)
Cosa possono fare gli occidentali in questa situazione?
L’Occidente deve fare una cosa molto importante: correggere l’errore che ha fatto negli anni ’90 e all’inizio del 2000. Perché quando l’Unione Sovietica si è disfatta e il comunismo è sparito, i russi si sono aperti all’Occidente. Fino ad allora l’avevano conosciuto solo come nemico del comunismo o come i film americani, dove c’era di tutto: la democrazia, i Mac Donald, le elezioni, la Costituzione, le belle auto. Erano disposti a costruire la società democratica ma non avevano nessuna esperienza, e non sapevano cos’è uno Stato di diritto.
L’Occidente avrebbe dovuto fare una cosa essenziale, aiutare i russi a costruirlo; avrebbe dovuto mostrare sul proprio esempio come funziona lo Stato di diritto. Ma l’Occidente non lo ha fatto vedere. Io allora lavoravo come interprete, e ho visto con i miei occhi circolare i soldi sporchi della criminalità organizzata, e come le banche occidentali, gli avvocati, i politici ne erano soddisfatti. L’Occidente avrebbe dovuto mostrare che lo Stato di diritto vive in base alla legge, e chi la viola finisce in prigione. Invece ha fatto vedere che quando si tratta di molti soldi lo Stato di diritto va a farsi benedire.
Penso che senza il sostegno dell’Occidente l’instaurarsi della dittatura putiniana non sarebbe stato possibile. Se sin dall’inizio avessero sanzionato tutti quelli che riciclavano i soldi sporchi, gli avvocati svizzeri e i politici italiani, Gerhard Schröder e così via, in Russia non sarebbe accaduto quello che è accaduto.
Insomma, è l’Occidente che ha nutrito questo mostro, per questo oggi ha la responsabilità di aiutare l’Ucraina a liberarsene.
Noi ricordiamo con ammirazione i dissidenti che difendevano i diritti dell’uomo senz’armi. Per lei erano degli illusi generosi, oppure hanno cambiato la situazione del paese?
Sono stati dei veri eroi e tali si percepivano loro stessi; quando è arrivata la fine dell’Unione Sovietica hanno creduto di aver vinto, e che avrebbero costruito la nuova Russia del futuro. Nel 1991 nel governo c’erano molti democratici, primo fra tutti Gavriil Popov, che era diventato sindaco di Mosca. Dove sono finiti tutti? se ne sono andati da soli, o li hanno fatti andare o li hanno ammazzati.
Il ritorno al punto di partenza è stato molto rapido, ma non poteva essere diversamente per il semplice fatto che colui che rispondeva della decomunistizzazione della Russia era un comunista; chi rispondeva della democratizzazione della società era l’FSB, cioè il KGB. L’uscita dal comunismo è stata gestita da comunisti tipo El’cin; e i direttori di fabbrica e le élite di partito sono diventati le élite capitaliste. In questo modo le leggi del mondo criminale sono entrate a far parte della nuova Russia democratica, che così ha continuato ad essere dominata dalla violenza e dalla forza. Naturalmente la popolazione si è sentita presa in giro, dalla democrazia non ha ricevuto niente, perché tutti i soldi restavano in mano ai criminali al vertice.
Noi crediamo che in Russia le domande principali siano: di chi è la colpa? Che fare? In realtà queste sono domande per intellettuali. Quanti russi hanno letto Černyševskij o Herzen?
Per i milioni e milioni di russi illetterati la vera domanda era, è e sarà: è un vero zar o no? Se lo zar è vero ci sarà ordine, se non è vero ci saranno disordine e anarchia.
Ma come distinguere uno zar autentico da uno non vero? Lo zar autentico incarna la forza e la vittoria, e siccome c’è sempre la guerra, lo zar dev’essere un vincitore. Non a caso, Stalin può aver annientato milioni di persone ma è un vincitore, e dunque è un vero zar. Gorbačev ha perso la guerra fredda con l’Occidente e quella in Afghanistan, dunque non è un vero zar e la gente ancora oggi lo disprezza. El’cin capiva molto bene che l’unico modo per ottenere la legittimazione come presidente non sarebbero state le elezioni (che si potevano manipolare), nel 1996 l’unica legittimazione sarebbe stata una vittoria. I generali gli dissero che avrebbero preso Groznyj in tre giorni. E invece è finita che la Russia ha perso la prima guerra cecena, dunque El’cin non era un vero zar, e tutti lo hanno preso in giro. Lo zar successivo doveva cominciare con una vittoria. E infatti subito a Mosca hanno fatto saltare dei condomini per poter iniziare la seconda guerra cecena… Così Putin ha cominciato assassinando la sua stessa popolazione. E ha vinto. Ma la sua vittoria principale è stata la Crimea: lì è stato l’autentico zar, tutta la popolazione tripudiava. Tuttavia il problema è che bisogna continuare a dimostrare di essere un vincitore ogni volta daccapo, e i generali gli hanno detto che in tre giorni avrebbero preso Kiev. Fantastico.
Se Putin avesse saputo che Kiev non sarebbe caduta in tre giorni certo non avrebbe incominciato questa guerra, ma lui non lo sapeva perché ogni dittatore perde i contatti con la realtà, e riceve solo l’informazione che vuole ricevere. Così non ha preso Kiev in tre giorni e la popolazione ha detto che non è un vero zar.

(www.hibiny.ru)
Ed ora si sta facendo il casting per un nuovo, vero zar. Va da sé che il prossimo presidente che verrà al posto di Putin per prima cosa fermerà la guerra a qualsiasi condizione, darà anche la Crimea, perché la guerra non si sta facendo per la Crimea ma per il potere al Cremlino. E comincerà la deputinizzazione, e tutte le sciagure saranno addossate a Putin, e il popolo dirà di lui come i tedeschi hanno detto di Hitler: che era un pazzo criminale, ma noi non sapevamo niente… credevamo di aiutare i fratelli ucraini a liberarsi della cricca nazista di Kiev. E il prossimo Putin dovrà legittimarsi con una vittoria, contro chicchessia.
Se ci saranno libere elezioni, la gente chi voterà? Qualche «agente straniero» e traditore che vive a Londra, tipo Chodorkovskij o Garry Kasparov, oppure sceglierà un vero patriota come Girkin, che oggi è un detenuto politico messo dentro da Putin?
Perché le dittature non nascono da un dittatore. Lo abbiamo visto in Germania e anche in Russia come nascono le dittature: dal bisogno di ordine, e quindi di una mano forte, che si troverà sempre.
Perciò non vincerebbe Kasparov né Chodorkovskij, che promettono la democrazia. Sappiamo cosa pensa la gente della democrazia: l’abbiamo già vista negli anni ’90, non la vogliamo, noi vogliamo ordine. E vincerà Girkin, che promette l’ordine e la vittoria su tutti i nemici; la Russia tornerà ad essere grande. E l’Occidente tenderà subito la mano alla nuova dittatura, la quale garantirà che il paese non si sfasci, e controllerà gli arsenali nucleari. Per l’Occidente questa è la cosa più importante, per cui sosterrà la nuova dittatura per evitare l’apocalisse nucleare.
E la storia russa una volta di più si mangerà la coda.
(foto d’apertura: S. Rodovnichenko, wikipedia)
Michail Šiškin
Nato a Mosca nel 1961, dopo la laurea all’Istituto Pedagogico (tedesco, inglese), ha lavorato come operaio, giornalista, insegnante e traduttore. Dal 1995 vive in Svizzera con la famiglia. È spesso ospite di università e fondazioni culturali in Europa e negli Stati Uniti, e ha al suo attivo numerosi interventi sui media internazionali. È considerato uno dei maggiori scrittori russi contemporanei (National Bestseller Prize, Grinzane Cavour, Premio Strega europeo).
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Marta Carletti Dell’Asta, è ricercatrice presso la Fondazione Russia Cristiana, dove si è specializzata sulle tematiche del dissenso e della politica religiosa dello Stato sovietico. Pubblicista dal 1985, è direttore responsabile della rivista «La Nuova Europa».
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