8 Febbraio 2024

Messaggi dalla provincia russa

Giovanna Parravicini

Ivanov cerca nel mondo statico e disperato della provincia le tracce delle domande esistenziali di cui nessuno si può liberare.

Voland, una delle case editrici italiane più curiose e attente alla cultura dell’Est Europeo (come sta a indicare anche il suo nome – il diavolo in visita al mondo di oggi, dal romanzo Il maestro e Margherita) ha proposto negli ultimi anni due romanzi di Aleksej Ivanov, autore russo estremamente interessante, legato alla provincia russa, cresciuto sugli Urali, dove sono ambientate varie sue opere.

In realtà, non siamo di fronte a delle novità editoriali: in Russia Il Geografo è uscito nel 1995 ottenendo un clamoroso successo (28 riedizioni, e nel 2013 una riduzione cinematografica che l’ha reso popolare in tutto il paese); il romanzo Cinocefali, apparso inizialmente con lo pseudonimo di «Aleksej Mavrin», è del 2011.

Messaggi dalla provincia russaIl Geografo si è bevuto il mappamondo è un’opera che cattura immediatamente il lettore in un’intrigante vicenda, in cui si mescolano più piani e linguaggi – l’adolescenza dei protagonisti nell’epoca brežneviana sullo sfondo delle paure, giustificate o no, della guerra nucleare; il presente di una perestrojka vista dalla periferia sovietica e post-sovietica (l’azione si svolge per l’appunto a Perm’, in Mordovia); una notevole capacità di far parlare la terrificante natura nordica e il desolato paesaggio urbano, che vivono di vita propria e insieme assurgono a simboli degli stati d’animo dei personaggi; brandelli di memoria di un terribile passato che emergono dalle rovine di villaggi abbandonati e di un ex lager staliniano; dialoghi che uniscono la squallida banalità del prosaico quotidiano all’affiorare di uno struggimento del vivere sotteso a ogni svolta della narrazione.

Il protagonista, Viktor Služkin, insegnante poco meno che trentenne, va a ingrossare le fila degli uomini «inutili», dei falliti, «strambi» di cui è ricca la letteratura russa: proprio in questi termini, almeno, lo rampognano aspramente la dirigente scolastica, la moglie che l’ha confinato a dormire sul divano in cucina, le amichette che di volta in volta si aspetterebbero qualche consolazione a letto ma restano puntualmente deluse dal suo defilarsi. Senza contare la scolaresca, un vero e proprio indomabile Sonderkommando che questo anomalo insegnante affronta quotidianamente in termini tutt’altro che ortodossi.

Con il procedere della narrazione – divertita, caustica, struggente – appare evidente che la «crepa» avvertita dal protagonista non è in realtà una sua stramberia personale, ma l’affiorare di un «interrogativo del vivere» che si fa strada in ciascuno dei personaggi, la cui dolente umanità riscatta meschinità, sotterfugi, piccole vigliaccherie quotidiane.

Non è un caso che l’azione del romanzo si svolga in primo luogo nella scuola, in un rapporto tra insegnante e allievi (adolescenti di prima superiore) che chiama ciascuno in causa per quello che è, con tutte le sue debolezze e difetti, senza però rinchiuderlo mai nella gabbia del già saputo. Come dice di sé lo stesso Služkin: «Non sono un educatore, tanto meno un insegnante. Ma non sono nemmeno un mostro che spaventa la gente. Non sono un loro amico, non sono un conoscente, un compagno più anziano o un tipo ganzo. Non sono un superiore, né un sottoposto. Non sono uno di loro, ma non sono nemmeno un estraneo…  Non sono una guida, ma nemmeno un pagliaccio. Sono la domanda a cui ciascuno di loro deve rispondere».

Una domanda che lo stesso Služkin pone a se stesso – ed è questo che lo rende interessante agli occhi dei suoi scolari – il senso dell’avventura del vivere: ne è un simbolo l’escursione proposta dall’insegnante agli scolari – una sorta di «romanzo nel romanzo», come hanno fatto rilevare varie recensioni – che mette a nudo ciò che veramente conta nella vita: amicizia, corresponsabilità, gratuità che fiorisce timidamente in una sorta di verginità, di cui Služkin fa improvvisamente esperienza nel rapporto con Maša, una ragazzina su cui fino a poco prima aveva messo spudoratamente gli occhi: «Non ho preso Maša anche per un altro motivo: tutto il bene che faccio si sarebbe trasformato in una porcheria. E io ne faccio poco, di bene, e quindi ci tengo moltissimo. Se l’avessi presa, averla ripescata dal fiumiciattolo malefico, averla consolata sul prato, averla trascinata lungo la strada e perfino, ah-ah, il sangue versato, sarebbe stato tutto non perché temevo per lei, come qualunque essere umano su questa terra dovrebbe fare per il proprio simile, ma perché la amavo, perché spinto dalla lussuria. Il vero bene è gratuito. Ora possiedo questo asso nella manica, questo fatto, questa azione. Qualunque cosa io possa fare, qualunque sofferenza possa patire, qualunque cattiveria si dica sul mio conto – alcolizzato, scemo, fallito – potrò sempre trovare un appiglio in questo gesto. Non sono sicuro che in questa stupida vita che conduciamo Maša avrebbe potuto offrirmi un sostegno più solido di questo fatto: averla rifiutata».

Per un insegnante come Služkin non c’è posto nella scuola, né forse – al di là delle pecche formali e ideologiche dell’istituzione – Služkin sarebbe disposto a lavorarci seriamente; costretto a dare le dimissioni, l’ultima scena lo vede al balcone, con il gatto e la figlia di cinque anni che gioca a indovinare quale auto passerà, e ne attende una dorata. Intanto, «di fronte a lui si stendeva a perdita d’occhio il deserto luminoso della solitudine». Eppure, questi mesi non sono passati invano, una traccia della domanda che lo costituisce è rimasta nell’intimo dei personaggi intorno a lui, adulti e adolescenti.

Messaggi dalla provincia russaI cinocefali, invece, ci porta in un ambiente surreale, nel degrado materiale e umano di un villaggio di campagna ma anche in un viaggio in epoche ancestrali, tra miti pagani, superstizioni popolane e leggende in cui sono avvolte la storia e le persecuzioni delle comunità di vecchi credenti.
La mutazione tra uomo e belva – cinocefalo, lupo, lupo mannaro – è legata all’impossibilità di «lasciare la propria zona»: chi in qualche modo (si tratti dei detenuti di un lager o di una famiglia o una ragazza che vuole lasciare il perimetro dell’usuale per tentare nuove strade nella vita), viene inesorabilmente fermato da mostri, che altri non sono, nella realtà, che i propri vicini o compagni. Anche questo romanzo, come il primo, si presta a molteplici livelli di lettura – dal thriller che ti lascia il fiato sospeso, fino alla trasparente parabola di un paese che non riesce a uscire dai solchi in cui si è impantanato.

Giovanna Parravicini

Ricercatrice della Fondazione Russia Cristiana. Specialista di storia della Chiesa in Russia nel XX secolo e di storia dell’arte bizantina e russa. A Mosca ha collaborato per anni con la Nunziatura Apostolica; attualmente è Consigliere dell’Ordine di Malta e lavora presso il Centro Culturale Pokrovskie Vorota. Dal 2009 è Consultore del Pontificio Consiglio per la Cultura.

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