24 Febbraio 2023

Un anno che ci ha cambiato • 2

Redazione

Dopo il 24 febbraio la speranza è diventata una parola difficile. L’emigrazione precipitosa, l’abbandono della vita precedente, la compromissione della Chiesa… la tragedia della separazione e la grazia di nuovi incontri. Parlano S. Panič, A. Desnickij, M. Borghesi, K. Hovorun.

Speranza, virtù difficile

Svetlana Panič
Russia (ora a Toronto)

Panic

Il 24 febbraio 2022 ci siamo svegliati in una realtà qualitativamente nuova, mostruosa e irrazionale, a cui non eravamo affatto preparati anche se, già dal 2008 o addirittura dai primi anni ’90, la guerra ha fatto costantemente da sfondo alla nostra vita quotidiana. Eppure la nostra ragione non poteva concepire che un bel mattino, a prescindere da dove abitavamo, ci saremmo trovati in mezzo a una guerra tradizionale, «storica», quella che Hannah Arendt riteneva impossibile dopo tutte le catastrofi del XX secolo; e la ragione si aggrappava ostinatamente alla speranza, non dico nel buon senso e nelle lezioni della storia, ma almeno nel naturale istinto di sopravvivenza.

Quest’anno di guerra ha messo in questione il concetto stesso di «speranza», ci ha costretti a ripensare da capo questa virtù incredibilmente difficile. A volte sembrava che ciò che sta accadendo esigesse di abolirla in quanto «oppio per anime belle»; esigesse di non aggrapparci più ad essa, di accettare che d’ora in poi ci toccherà vivere nella fossa tenebrosa della disperazione e della vergogna perché noi, che conosciamo molte parole dotte e siamo capaci di farne dei testi belli ed elevati, non siamo riusciti a scongiurare questa guerra.

Ma siamo anche arrivati a capire con una chiarezza e una concretezza mai sperimentate prima, che troppo spesso abbiamo inteso la speranza come banale «positività» – parola in voga prima della guerra –

mentre invece la speranza è uno sforzo intenso, un duro lavoro, una forma di resistenza alla guerra, infatti, all’ideologia di cui la guerra si nutre fa comodo la disperazione nera che paralizza il desiderio di verità.

Un anno di guerra ci ha costretti a rivedere molti concetti che ci sembravano familiari, e a riconoscere che no, non si sono svuotati di senso ma anzi, significano qualcosa di più difficile ed esigente di ciò a cui eravamo abituati ad associarli. Molte parole, per usare un’immagine di Averincev, non solo «si sono allontanate dalla fragile natura umana», ma sono diventate così grevi da essere impronunciabili. Il diritto di pronunciarle richiedeva un’azione quotidiana, richiedeva di rinunciare a difenderci con la scusa che «tanto non sapremo mai cosa c’è dietro», per riconoscere la vera complessità, quella che interroga ed esige che si distingua costantemente il bene dal male.

Si sono come sbriciolati gli orpelli con cui si cercava di adornare la vita negli «anni delle vacche grasse»; molte abitudini e scherzi apparentemente innocenti, l’ostentazione di una totale ironia hanno messo a nudo la loro banalità, e ora bisogna reimparare da capo, cito di nuovo Averincev, ad essere autenticamente seri con ciò che lo richiede.

Questo annus horribilis ha mostrato quanto ci manca una parola autorevole che non sia uno slogan, quanto ci manca il «pensiero lungo» di coloro che hanno saputo conservare una serietà non affettata e stucchevole.

Questo anno ha cambiato il mio rapporto con il tempo. Mi ha insegnato che ho soltanto l’«adesso», questo minuto, questo giorno, i suoi impegni, le sue domande, perciò non si può rimandare «a dopo», bisogna affrettarsi.

Infine è cambiato il mio rapporto con la gente. È andato in frantumi ciò che, con tutta la sua presunta ricercatezza, era inaffidabile, ed è affiorata la bellezza radiosa, non saprei definirla altrimenti, dei rapporti con i miei amici ucraini, molti dei quali non vedevo da tanti anni. Questa «catena radiosa» mi ha aiutato a non crollare nei primi mesi di guerra, mi sostiene oggi e so per certo che si prolungherà «oltre la vita».

La guerra ha abolito molte barriere ideali, estetiche, stilistiche e di altro genere, costruite non senza un certo autocompiacimento ai «tempi delle vacche grasse». Oggi per me lo spartiacque invalicabile passa fra chi ritiene che esista una ragione «di Stato», metafisica o comunque superiore per cui si possa invadere la terra altrui e uccidere i suoi abitanti, e chi pensa che la guerra sia un male assoluto e indiscutibile. È cambiata la concezione stessa della parola «nostri», che non si riferisce solo a quelli con cui condividiamo il modo di pensare e «le citazioni», ma soprattutto a coloro con cui puoi stare insieme dentro una comune speranza.

Penso che oggi viviamo ai tempi del buon samaritano, e il contenuto, la qualità della nostra vita sono definiti da quella stessa strada su cui a volte siamo noi a giacere in terra percossi e su di noi si china chi non dovrebbe farlo; e a volte siamo noi a chinarci su coloro ai quali in questo tempo terribile dobbiamo farci prossimo.

Un anno che ci ha cambiato • 2

Soledar. (K. Liberov, Astra)


Un anno di guerra

Andrej Desnickij
Russia (ora a Vilnius)

DesnickijIn questo anno nella mia vita è cambiato praticamente tutto: luogo di residenza, lavoro, piani… o meglio, le speranze per il futuro, perché i piani non sono mai andati più in là del mese successivo. La pandemia e il lockdown ora sembrano una specie di training a quanto è successo. E l’emigrazione improvvisa, che abbiamo affrontato l’autunno scorso, sembra una specie di preparazione alla morte. Abbiamo dovuto lasciare quasi tutto dove stava, e non sappiamo per quanto tempo, ma nonostante tutto questo la vita non è finita. Ho capito che ho bisogno di molte meno cose e legami di quanto pensassi prima.

Non direi di aver scoperto qualcosa di assolutamente nuovo su di me e sugli altri attorno a me. Piuttosto ho trovato conferma di quanto sia vero quello che avevo letto un tempo nei buoni libri: che la nostra vita (anche quella psichica) è fragile; che nell’uomo c’è molto di bestiale e che la bestia viene alla superficie con grande facilità, ma al tempo stesso, che la società umana può ricomporsi dai frammenti.

La cosa più imponente, forse, è la crisi (per non dire il crollo) della religiosità tradizionale, e non solo quella ortodossa. Eravamo abituati al fatto che la Chiesa parlasse delle cose essenziali e predicasse le verità eterne. Ma quando gli eventi descritti nella Bibbia hanno cominciato ad accadere accanto a noi, abbiamo scoperto che nella maggioranza dei casi gli uomini di Chiesa non hanno semplicemente avuto il coraggio di chiamare le cose col proprio nome: omicidio l’omicidio, violenza la violenza, furto il furto. Peggio, che possono usare a cuor leggero l’autorità accumulata, la posizione eminente nella società per predicare che «non è tutto come sembra».

Invece, una scoperta di quest’ultimo anno per me e mia moglie è stata la città di Vilnius, che abbiamo visitato per la prima volta in luglio, amandola da subito, e dove in autunno mi hanno offerto un lavoro.

La guerra è la tragedia della separazione. Ma anche una possibilità di incontri.


Una guerra ancora senza soluzione

Massimo Borghesi
Italia

BorghesiL’angoscia, che accompagna il cuore e la mente, il mio cuore e la mia mente, dopo il 24 febbraio 2023, non è solo di fronte ad una guerra crudele che tocca da vicino l’Europa, una guerra che tra russi e ucraini somma già più di 200.000 morti. L’angoscia è anche di fronte ad un conflitto che, al momento, non presenta alcuna soluzione, alcuna via d’uscita. Come una morsa esso vede le parti in lotta avvitarsi sempre di più, chiudere le fessure, correre verso vie che non hanno ritorno. E tutto ciò di fronte alla diplomazia dei blocchi contrapposti, ferma, sterile, ottusa.

Così, noi che guardiamo la televisione ogni sera, rimaniamo attoniti di fronte alle immagini struggenti del povero popolo ucraino a cui è tolto tutto: i cari uccisi, i figli, le case. Uomini, donne, bambini gettati nel fango in un inverno gelido, sotto il rombo vicino dei cannoni nel lampeggiare della notte. Rimaniamo attoniti di fronte ad un dolore immenso, che non può essere coperto da nessun nazionalismo, da nessuna sacralizzazione della patria. Dolore provocato da un uomo, Putin, dal delirio della sua volontà di potenza. Voluto dalla Russia, con l’inerzia colpevole di altri che, negli anni passati, non hanno esitato a soffiare nel fuoco.

La pace, quella promessa dalla caduta del muro di Berlino, è finita. È il titolo dell’ultimo volume di Lucio Caracciolo, La pace è finita. Così ricomincia la storia in Europa, edito da Feltrinelli, in cui molto mi ritrovo. Per l’autore la pace si fonda sul realismo, cioè sull’equilibrio tra le potenze. Una lezione che dopo l’89 è stata inopinatamente dimenticata. Oggi «la guerra in Ucraina è sulla scala strategica del mondo scontro fra Russia e Stati Uniti d’America» (Caracciolo), non primariamente guerra tra Europa e Russia. L’Europa è divisa, dilaniata essa stessa al suo interno, sulle misure da adottare. Succube del grande gioco. Impotente, perciò, a mediare, a indicare soluzioni. Questa è la vera tragedia nella tragedia: essere spettatori di una guerra e non essere in grado di intravedere soluzioni che possano porvi fine.

Un anno che ci ha cambiato • 2

(0629.com.ua)


La mia guerra

Archimandrita Kirill Hovorun
Ucraina (ora a Roma)

HovorunPer me la guerra non è iniziata nel febbraio 2022 come per la maggioranza degli europei, e neppure nel febbraio 2014 come per la maggioranza degli ucraini.
È iniziata alcuni anni prima, quando mi sono reso conto della pericolosità delle idee che poi hanno portato alla guerra. Si tratta di un complesso di idee – a volte eterogenee e reciprocamente incompatibili, a volte invece molto coerenti e che si puntellano a vicenda – che ancora necessita di un’analisi accurata e sistematica. Tuttavia già da ora lo si potrebbe definire in modo globale, ad esempio col termine che aveva usato don Luigi Sturzo nel descrivere alcune tendenze della Chiesa italiana tra le due guerre: clerico-fascismo; oppure con un termine ancora più radicale pensato da Dorothee Sölle: cristofascismo.

In Russia e nella sua Chiesa ortodossa gli avvocati di questo genere di idee le promuovono con l’etichetta del «mondo russo». Si tratta della percezione distorta di quello che l’ortodossia ha di più caro e con il quale si identifica: la purezza della fede. L’ideologia del «mondo russo» estrapola l’idea della purezza della fede applicandola al piano socio-politico e inscrive sui suoi vessilli slogan di lotta per «i valori tradizionali» contro il presunto Occidente moralmente corrotto. In nome di questa lotta giustifica anche la guerra scatenata dalla Russia contro l’Ucraina.

Questa guerra per me personalmente non finirà con la sconfitta di Putin. Finirà solo quando sarà sconfitto il putinismo, l’ideologia di cui Putin si è armato per scatenare la sua guerra, e che può sopravvivergli. Se accadesse questo, in Europa si avranno nuovi conflitti bellici anche dopo Putin.

Per questo è così importante combattere non solo l’aggressione militare in quanto tale ma le idee che l’hanno generata.

Anche se io ero preparato all’aggressione diretta della Russia contro l’Ucraina un anno fa, per me è stata comunque uno shock, come per qualsiasi ucraino ed europeo.

Le prime settimane avevo la sensazione di muovermi in un incubo da cui volevo svegliarmi. Ora la sensazione è diversa, come se quello che c’era prima della guerra non fosse mai esistito. La guerra è diventata parte della routine quotidiana, praticamente la nuova norma di vita per la maggioranza degli ucraini.
Per questo bisogna che finisca al più presto.
Però che non finisca congelando il conflitto, che porterebbe a nuove escalation, ma con la vittoria definitiva su Putin e il putinismo.

Russia-Ucraina: un anno che ci ha cambiato • 1
Un anno che ci ha cambiato • 3


(foto d’apertura: Sota)

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