13 Dicembre 2022

Possiamo ancora sperare?

Adriano Dell’Asta

L’immedesimazione di papa Francesco nel dolore delle vittime, il bisogno di giustizia e di verità che non siano contro qualcuno ci indicano come stare davanti alle tragedie di oggi, senza relativismi.

Credo che sia impossibile continuare a parlare della tragedia che sta avvenendo in Ucraina senza una premessa fondamentale, cioè senza avere nel cuore e nella testa le parole e, soprattutto, il silenzio di papa Francesco durante la preghiera a Maria Immacolata di giovedì 8 dicembre, in piazza di Spagna:

«Vergine Immacolata, avrei voluto oggi portarti il ringraziamento del popolo ucraino, [… e qui si è fermato per quasi mezzo minuto, sopraffatto dalla commozione] del popolo ucraino per la pace che da tempo chiediamo al Signore. Invece devo ancora presentarti la supplica dei bambini, degli anziani, dei padri e delle madri, dei giovani di quella terra martoriata, che soffre tanto. Ma in realtà noi tutti sappiamo che tu sei con loro e con tutti i sofferenti, così come fosti accanto alla croce del tuo Figlio. Grazie, Madre nostra! Guardando a te, che sei senza peccato, possiamo continuare a credere e sperare che sull’odio vinca l’amore, sulla menzogna vinca la verità, sull’offesa vinca il perdono, sulla guerra vinca la pace. Così sia!».

È stato un silenzio doloroso e angosciante dal quale è impossibile non lasciarsi interrogare e mettere in questione, un silenzio nel quale le parole («avrei voluto oggi portarti il ringraziamento del popolo ucraino […] Invece devo ancora presentarti […] la supplica di quella terra martoriata, che soffre tanto») assumono un peso che tutti dobbiamo sostenere e sotto il cui vaglio tutti dobbiamo far passare i nostri punti di vista, le nostre prospettive e, per grazia di Dio, anche le nostre speranze, perché comunque da questo doloroso silenzio esplode una certezza, quella dell’amore della Madre di Dio Immacolata, grazie al quale

«possiamo continuare a credere e sperare che sull’odio vinca l’amore, sulla menzogna vinca la verità, sull’offesa vinca il perdono, sulla guerra vinca la pace».

Possiamo ancora sperare?

Un momento della preghiera di papa Francesco all’Immacolata in piazza di Spagna a Roma. (Vatican media)

Non possiamo ascoltare queste parole, e soprattutto questo silenzio, senza avere nelle orecchie altre parole, quelle che san Giovanni Paolo II pronunciò nel suo famoso discorso nella valle dei templi ad Agrigento il 9 maggio del 1993:

«Questi che portano sulle loro coscienze tante vittime umane, devono capire, devono capire che non si permette uccidere innocenti! Dio ha detto una volta: “Non uccidere”: non può uomo, qualsiasi, qualsiasi umana agglomerazione, mafia, non può cambiare e calpestare questo diritto santissimo di Dio! Qui ci vuole civiltà della vita! Nel nome di questo Cristo, crocifisso e risorto, di questo Cristo che è vita, via verità e vita, lo dico ai responsabili, lo dico ai responsabili: convertitevi! Una volta verrà il giudizio di Dio!».

Il giudizio di Dio è presente in queste parole come lo è nel silenzio di papa Francesco, parole e silenzio che ci dicono la stessa esperienza dell’appartenenza a Cristo sotto la cui Croce mettiamo ogni nostro dolore e ogni nostra speranza, perché il dolore trovi consolazione e la speranza fondamento, perché il dolore e l’indignazione davanti al male non si ripieghino su se stessi in uno sterile odio e perché la speranza non sia confusa col far finta di niente, come se il male non esistesse e non avesse origini precise.

Perché il dolore e l’indignazione davanti al male non si ripieghino su se stessi in uno sterile odio: non dimentichiamo mai che il santo che pronunciò l’invettiva di Agrigento fu anche quello che perdonò il suo attentatore senza che quello si fosse mai pentito.

Perché la speranza non sia confusa col banale far finta di niente, come se il male non esistesse e non avesse origini precise: non dimentichiamo che il papa, che si rivolge alla Madre Immacolata e a lei si affida, mai come in questi giorni ha ricordato che l’aggressore ha un nome preciso.

La chiarezza del giudizio e l’imponenza dell’esperienza del perdono

Lasciamoci mettere in questione da questi due aspetti; lasciamoci interrogare da queste parole e da questo silenzio – perché la cultura che ci ha trasmesso la nostra Europa cristiana è quella dello spazio della vita interrogata – e vediamo che frutti ne possono nascere.

La chiarezza del giudizio: «Quando parlo dell’Ucraina, parlo di un popolo martirizzato. Quando c’è un popolo martirizzato, c’è qualcuno che lo martirizza. Quando parlo dell’Ucraina parlo della crudeltà, perché ho molte informazioni sulla crudeltà delle truppe che entrano. […] Di certo, a invadere è lo Stato russo. È molto chiaro. A volte cerco di non specificare per non offendere e piuttosto condanno in generale, anche se è ben noto chi sto condannando. Ma non è necessario che io dica nome e cognome. […] Perché non menziono Putin? Non è necessario; si sa già. Tuttavia, a volte le persone si attaccano a un dettaglio. Tutti conoscono la mia posizione, con Putin o senza Putin, senza menzionarlo».

E poi perché sia più chiara l’imponenza di una storia che inserisce la tragedia di questi giorni in una lunga catena di sofferenze di cui l’Ucraina porta il peso, il papa ricorda la tragedia del Holodomor: «vorrei menzionare che in questi giorni ricorre l’anniversario del Holodomor, il genocidio commesso da Stalin nei confronti degli ucraini (nel 1932-1933). Ritengo che sia giusto ricordare un precedente storico del conflitto [attuale]».

E la memoria di questo stesso Holodomor risuona alla fine della lettera agli Ucraini che si apre invece con queste parole, nelle quali il nome dell’aggressore è chiaro senza che sia necessario farne il nome: «Cari fratelli e sorelle ucraini! Sulla vostra terra, da nove mesi, si è scatenata l’assurda follia della guerra. […]. Le vostre città sono martellate dalle bombe mentre piogge di missili provocano morte, distruzione e dolore, fame, sete e freddo. […] Io vorrei unire le mie lacrime alle vostre e dirvi che non c’è giorno in cui non vi sia vicino e non vi porti nel mio cuore e nella mia preghiera. Il vostro dolore è il mio dolore. Nella croce di Gesù oggi vedo voi, voi che soffrite il terrore scatenato da questa aggressione. Sì, la croce che ha torturato il Signore rivive nelle torture rinvenute sui cadaveri, nelle fosse comuni scoperte in varie città, in quelle e in tante altre immagini cruente che ci sono entrate nell’anima, che fanno levare un grido: perché? Come possono degli uomini trattare così altri uomini? Nella mia mente ritornano molte storie tragiche di cui vengo a conoscenza».

Possiamo ancora sperare?

Neve a Marjupol’. (Belsat)

L’imponenza dell’esperienza e della necessità del perdono. Nessun dubbio su questa tragica conoscenza, eppure, nell’intervista alla rivista «America» dei gesuiti americani (dove il nome di Putin era fatto chiaramente) papa Francesco sottolinea che «la posizione della Santa Sede è quella di cercare pace e un’intesa».

È il tema della necessità del dialogo, quante volte ribadito dal papa, non perché colpe e responsabilità possano essere ignorate o cancellate, ma perché il dialogo va fatto anche quando «puzza» (infatti durante il dialogo può accadere qualcosa che non è nelle nostre mani come non è nelle nostre mani la libertà degli altri) e perché comunque bisogna lasciare uno spazio a una verità più grande, quella alla quale ci richiama padre Uminskij nella sua intervista: «Cristo non dice semplicemente: “cercate la verità”, ma dice: “cercate il regno di Dio e la sua verità”. E quando si dice: “beati gli affamati e gli assetati di giustizia”, non si parla della giustizia terrena, o delle divisioni fra le persone, ma della verità di Dio che è innanzitutto la verità del regno di Dio. Bisogna capire tutto ciò, pregare per questo e chiedere a Dio che ci invii la luce che illumina il cuore, la luce della ragione che dà le parole, non una parola che uccide ma una parola che guarisce. Questa è la prima cosa che deve fare un sacerdote». E la prima cosa, ovviamente, che deve fare anche un cristiano.

Ripeto: non perché la morte e le sofferenze non abbiano un’origine e un autore, ma perché non possiamo concedere alla morte e all’odio che la loro logica abbia l’ultima parola, che la libertà sia vinta dalla necessità, che all’odio si risponda con l’odio, alla morte con la morte e alla menzogna con la menzogna.

La menzogna. In questi giorni la menzogna dell’aggressore si è fatta per certi versi ancora più spudorata di quanto non fosse all’inizio; forse allora si poteva ancora discutere di interpretazioni diverse, di reazioni russe a un presunto espansionismo occidentale: interpretazioni insostenibili e che comunque non potevano neppur lontanamente giustificare quanto è avvenuto dopo il 24 febbraio, ma adesso siamo al parossismo della menzogna, quando si cerca di far passare per una posizione veramente interessata alla pace quella di chi dice che è disposto a intavolare qualsiasi trattativa che «possa salvaguardare gli interessi della Russia», o ancora si pretende di giustificare gli attacchi sistematici a tutte le infrastrutture civili ucraine con la scusa che «hanno cominciato prima gli Ucraini con il ponte di Crimea».

Questa menzogna va denunciata sicuramente nella sua pietosa risibilità, come anche nel suo pericoloso contagio e nella sua struttura tipicamente ideologica. Come fa padre Vladimir Zelinskij: «È impressionante la somiglianza tra la lotta contro il capitalismo (=accerchiamento del nemico), e la lotta contro il fascismo ucraino (=accerchiamento del nemico): sono due gocce d’acqua… Non si tratta dei diversi contenuti dell’ideologia dominante, ma del meccanismo del suo funzionamento occulto. Il punto sta nel caos che si agita sotto all’ideologia, portando in superficie ora un argomento ora un altro, ora un significato ora un altro. E mi sembra di intravedere dietro entrambe le narrazioni, così diverse l’una dall’altra, quello stesso demone del quale Cristo ha detto che è omicida fin dal principio e che, quando dice il falso, parla del suo (Gv 8,44). Questa non è la menzogna che vuole ingannare, abbindolare, trarre profitto. Questa è una menzogna onesta e sincera, una menzogna contro la vita stessa creata da Dio. Vuoi vestita di comunismo, che voleva conquistare il mondo intero, vuoi vestita di patriottismo, che per ora combatte solo contro l’Ucraina».

Ed è impressionante come l’Occidente disquisisca sull’efficacia delle sanzioni, sull’umiliazione dell’aggressore che va evitata, sulle percentuali dei favorevoli e dei contrari alla guerra, e faccia fatica a vedere questa menzogna contro la vita, questa menzogna radicale perché in essa non esiste più vero o falso, bene o male, non si è più preoccupati di far credere nella propria verità ma, dicendo le cose più assurde, si cerca di convincere che non esiste né vero né falso, ma solo il potere che vive di calcoli di potenza senza preoccuparsi degli uomini e che ci rende schiavi proprio convincendoci che le cose che si devono discutere sono quelle che interessano a lui: tutto fuor che le persone… non è che forse succede così perché la vita è fuggita lontano da noi? Mentre la cosa più importante sono proprio le persone e la loro vita, la realtà che irrompe dalle parole e dal silenzio dei papi.

Possiamo ancora sperare?

(Belsat.eu)

Le persone e la loro vita. Ma se le cose stanno così non ci si può fermare qui, in nome della vita che ci urge dentro, in nome della verità dei discorsi e del silenzio dei due papi che ci colpiscono così profondamente: con il loro silenzio e la loro indignazione, essi ci rimandano a qualcosa d’altro, a qualcosa che, per il dolore che ci comunicano, non si lascia cancellare; davanti a un dolore che non possiamo dominare siamo rimandati a qualcosa di diverso da tutti i discorsi, da tutte le pretese di poter dominare, di poter possedere la verità: il silenzio del papa che davanti a un dolore inenarrabile tace, sostituendo alle parole il proprio dolore, ci rimanda esattamente a chi soffre e, al di là di tutti i discorsi, ci fa riscoprire la necessità, innanzitutto, della condivisione, della solidarietà con le persone. La pace va cercata non perché si vorrebbe stare in pace, non perché si riconosce una qualche ragione all’aggressore, non per un sentimentale e spiritualistico buonismo ma esattamente per solidarietà con chi soffre,

una solidarietà che non risponde a un vago sentimento, ma alla struttura dell’uomo che non è fatto per essere solo, che deve essere riconosciuto in tutto il suo valore, e del quale non bisognerà mai dimenticare dunque la dignità, non meno importante della non umiliazione dell’aggressore.

Una solidarietà che non sia ridotta a un vago sentimento è anche la presa di coscienza politicamente efficace del fatto che la libertà è indivisibile: non si può essere liberi a danno degli altri e la nostra libertà non è pericolosa perché dovremmo o vorremmo esportarla, ma perché implica questa condivisione, questa coscienza efficace del valore della vita dell’altro. Parlo di coscienza efficace perché solo dalla coscienza del primato della persona può nascere la vera pace, una pace che, non dimenticando mai la dignità dell’aggredito, lasci uno spazio per incontrare anche la persona dell’aggressore.

Ripeto non è buonismo, ma fedeltà alla struttura dell’uomo e fedeltà alla storia. Farò un solo esempio di come questa coscienza possa cambiare la storia.

Gorbačëv non aveva certo intenzione di abbattere il sistema, era un suo figlio e non sarebbe arrivato ad occupare il posto che occupava se non fosse stato tale (il suo comportamento nei giorni di Černobyl lo mostra ampiamente), eppure non possiamo dimenticare che alla morte di Sacharov, Gorbačëv, da niente e nessuno obbligato, volle andare al suo funerale e alla fine si avvicinò alla vedova chiedendole cosa poteva fare per lei: erano i giorni in cui Memorial cercava di ottenere la registrazione legale che il potere invece negava con ogni scusa, con la forza di un regime che era ancora in funzione. La vedova gli rispose: «Conceda la registrazione a Memorial». E questo avvenne di lì a qualche giorno.

La storia non si ripete mai, Gorbačëv non è Putin e la controversia su Memorial era ben lungi dall’essere paragonabile alla tragedia di questi mesi… ma la libertà dell’uomo è sempre la stessa e se non possiamo pretendere che cambi il cuore degli altri possiamo almeno cercare che cambi il nostro e sperare che la nostra supplica sincera trovi risposta.


Foto di apertura: Belsat.eu

Adriano Dell’Asta

È docente di lingua e letteratura russa presso l’Università Cattolica. Accademico della Classe di Slavistica della Biblioteca Ambrosiana, è vicepresidente della Fondazione Russia Cristiana.

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