13 Luglio 2021

L’urgenza dell’unità ci interroga

Francesco Braschi

Dietro all’annuncio del presunto scontro verbale tra Roma e Mosca riguardo all’unità tra le Chiese si manifesta l’urgenza che la carità torni a prevalere nei rapporti. La crisi attuale è una buona occasione.

Lo scorso 29 giugno, in occasione della festa dei ss. apostoli Pietro e Paolo, patroni della Chiesa di Roma, come è ormai consuetudine da alcuni decenni una delegazione del Patriarcato ecumenico di Costantinopoli, guidata dal metropolita di Calcedonia Emmanuel, ha assistito al solenne pontificale celebrato da papa Francesco, dopo essere stata ricevuta il giorno prima in udienza particolare ed essersi poi incontrata con i referenti vaticani per il dialogo ecumenico.

A seguito di questa visita alcuni organi di stampa hanno voluto mettere in evidenza una reazione «risentita» del Patriarcato di Mosca, per bocca del metropolita Ilarion di Volokolamsk, rispetto alle «dichiarazioni sempre più insistenti da parte dei rappresentanti del Patriarcato di Costantinopoli sul forte “riavvicinamento” della Chiesa ortodossa e della Chiesa cattolica e sulla possibilità di una loro precoce riunificazione», dando ad esse il valore di una vera e propria risposta a quanto affermato da papa Francesco nell’incontro con la delegazione costantinopolitana, quando si chiedeva e chiedeva:

«Cari fratelli, non è forse giunta l’ora in cui dare, con l’aiuto dello Spirito, slancio ulteriore al nostro cammino per abbattere vecchi pregiudizi e superare definitivamente rivalità dannose? Senza ignorare le differenze che andranno superate attraverso il dialogo, nella carità e nella verità, non potremmo inaugurare una nuova fase delle relazioni tra le nostre Chiese, caratterizzata dal camminare maggiormente insieme, dal voler fare reali passi avanti, dal sentirci veramente corresponsabili gli uni per gli altri?».

Per amore di verità, bisogna dire che la dichiarazione del metropolita Ilarion riportata come conseguenza delle parole del papa è comparsa sul sito del Dipartimento per le relazioni esterne del Patriarcato di Mosca il 27 giugno, ovvero il giorno prima dell’incontro di Francesco con il metropolita Emmanuel, e che Ilarion faceva riferimento a dichiarazioni non del papa, bensì di «rappresentanti del Patriarcato di Costantinopoli», nei quali verosimilmente bisogna ravvisare il metropolita Policarpo, da pochi mesi a capo della diocesi ortodossa d’Italia appartenente alla giurisdizione costantinopolitana, che in un’intervista concessa a Vatican News in occasione di un’udienza concessagli da papa Francesco, il 22 maggio scorso, aveva affermato: «Il viaggio di cattolici e ortodossi verso la piena unità è sulla buona strada, sotto la guida dello Spirito Santo, e sta andando verso il traguardo. Io penso che, a livello di fedeli, questo traguardo sia stato già raggiunto, e questo è più importante che a livello istituzionale».

Alla risposta del 27 giugno della Chiesa ortodossa russa, peraltro, ha fatto seguito proprio in questi giorni, il 12 luglio, la pubblicazione di alcune dichiarazioni rese dal metropolita Ilarion durante la trasmissione «Chiesa e mondo», che va in onda ogni domenica sul canale all-news in lingua russa Rossija-24. In questa occasione il presule ha fatto esplicito riferimento all’incontro del 28-29 giugno tra papa Francesco e il metropolita Emmanuel, affermando che esso ha «provocato una nuova ondata di discussioni relative alle prospettive di un accordo tra il Fanar e il Vaticano a proposito dell’“unificazione” di cattolici e ortodossi», ribadendo la posizione più volte espressa da Mosca, secondo cui il Patriarcato di Costantinopoli non ha alcuna facoltà di prendere decisioni unilaterali a nome di tutta l’ortodossia: un’attitudine che viene invece rimproverata a Bartolomeo e che porterebbe al tentativo da parte sua di affermarsi come una sorta di «papa ortodosso», rischiando inoltre di riproporre scenari nefasti per la Chiesa tutta, come il tentativo di unione conseguente al Concilio di Ferrara-Firenze, nel XV secolo, che vide Costantinopoli sconfessata dalle altre Chiese ortodosse, al punto che il tentativo di unione venne successivamente denunciato e ripudiato, di fatto rimanendo del tutto inefficace e, anzi, approfondendo il solco di divisione tra Oriente e Occidente.

E. von Steinle, Commiato degli apostoli Pietro e Paolo (1850).

Questa lunga ricostruzione dei fatti delle ultime settimane – che ci pareva doverosa per riportare un po’ di chiarezza fattuale – ha in realtà l’unico scopo di aiutarci a cogliere in tutto il suo valore quanto detto da papa Francesco non solo nell’incontro del 28 giugno, ma anche nell’omelia della festa dei ss. Pietro e Paolo.

Già abbiamo riportato le parole centrali del discorso tenuto dal papa alla vigilia della festa dei patroni di Roma. La domanda fondamentale da lui posta riguarda il discernimento da operare a partire dal tempo drammatico che stiamo vivendo:

riconoscere cioè come la crisi in atto ci chieda di lasciare ciò che non è necessario né utile, per accogliere l’appello di Dio ad una nuova fase delle relazioni tra le nostre Chiese volta ad «abbattere vecchi pregiudizi e superare definitivamente rivalità dannose», e per questo segnata innanzitutto dalla corresponsabilità gli uni verso gli altri.

Ma in cosa consista questa nuova fase e quale sia la modalità di esercizio della corresponsabilità, lo si capisce da un altro passo del discorso di papa Francesco:

«Ora, noi crediamo, come insegna l’apostolo Paolo, che a restare per sempre è l’amore, perché, mentre tutto passa, la carità non avrà mai fine (1 Cor 13,8). Non parliamo certamente dell’amore romantico, centrato su se stessi, sui propri sentimenti, desideri ed emozioni; parliamo dell’amore concreto, vissuto al modo di Gesù. È l’amore del seme che dà vita morendo in terra, che porta frutto spezzandosi. È l’amore che non cerca il proprio interesse, che tutto scusa, tutto spera, tutto sopporta (vv. 5.7). In altre parole, il Vangelo assicura frutti abbondanti non a chi accumula per sé, non a chi guarda ai propri tornaconti, ma a chi condivide apertamente con gli altri, seminando con abbondanza e gratuità, in umile spirito di servizio. Prendere sul serio la crisi che stiamo attraversando significa dunque, per noi cristiani in cammino verso la piena comunione, chiederci come vogliamo procedere.

Ogni crisi pone di fronte a un bivio e apre due vie: quella del ripiegamento su sé stessi, nella ricerca delle proprie sicurezze e opportunità, o quella dell’apertura all’altro, con i rischi che comporta, ma soprattutto con i frutti di grazia che Dio garantisce».

È interessante che papa Francesco precisi come l’amore che rimane per sempre, la carità, non abbia nulla a che fare con l’amore romantico «centrato su se stessi, sui propri sentimenti, desideri ed emozioni», bensì abbia un carattere eminentemente pratico e concreto, tale per cui la carità necessaria a sostenere il cambio di passo chiesto dal papa tanto ai cattolici quanto ai fratelli separati passa necessariamente per la rinuncia al proprio tornaconto e l’assunzione di un umile spirito di servizio nei confronti dell’altro. Questo è infatti l’amore che abbiamo appreso da Cristo, che continuamente dev’essere riscoperto e nuovamente scelto come paradigma tanto dei rapporti interpersonali, quanto di quelli interecclesiali.

Ma è nell’omelia del 29 giugno che papa Francesco scava ancora più in profondità, rileggendo le vicende dei santi apostoli Pietro e Paolo nei termini di una liberazione conseguita da ambedue e documentata dalle letture della messa. L’accento però viene posto sulla duplice caratteristica di questa liberazione, così come si manifesta nei due santi: nel caso di Pietro, Cristo «lo ha liberato dalla paura, dai calcoli basati sulle sole sicurezze umane, dalle preoccupazioni mondane, infondendogli il coraggio di rischiare tutto e la gioia di sentirsi pescatore di uomini. Ha chiamato proprio lui a confermare nella fede i fratelli (cfr. Lc 22,32)» conferendogli il potere delle chiavi. Ma questo potere ha senso e va esercitato proprio perché Pietro per primo è stato liberato dalle proprie paure e piccolezze.

Paolo, invece, afferma il papa, è stato «liberato dalla schiavitù più opprimente, quella del suo io, e da Saulo, nome del primo re di Israele, è diventato Paolo, che significa “piccolo”. È stato liberato anche dallo zelo religioso che lo aveva reso accanito nel sostenere le tradizioni ricevute (cfr. Gal 1,14) e violento nel perseguitare i cristiani… L’osservanza formale della religione e la difesa a spada tratta della tradizione, invece che aprirlo all’amore di Dio e dei fratelli, lo avevano irrigidito: era un fondamentalista. Da questo Dio lo liberò».

E l’esempio dei due apostoli patroni di Roma mostra il cammino per la Chiesa del nostro tempo: «Toccati dal Signore, anche noi veniamo liberati. E abbiamo sempre bisogno di venire liberati, perché solo una Chiesa libera è una Chiesa credibile. Come Pietro, siamo chiamati a essere liberi dal senso della sconfitta dinanzi alla nostra pesca talvolta fallimentare; a essere liberi dalla paura che ci immobilizza e ci rende timorosi, chiudendoci nelle nostre sicurezze e togliendoci il coraggio della profezia. Come Paolo, siamo chiamati a essere liberi dalle ipocrisie dell’esteriorità; a essere liberi dalla tentazione di imporci con la forza del mondo anziché con la debolezza che fa spazio a Dio; liberi da un’osservanza religiosa che ci rende rigidi e inflessibili; liberi dai legami ambigui col potere e dalla paura di essere incompresi e attaccati.

Pietro e Paolo ci consegnano l’immagine di una Chiesa affidata alle nostre mani, ma condotta dal Signore con fedeltà e tenerezza… di una Chiesa debole, ma forte della presenza di Dio;

l’immagine di una Chiesa liberata che può offrire al mondo quella liberazione che da solo non può darsi: la liberazione dal peccato, dalla morte, dalla rassegnazione, dal senso dell’ingiustizia, dalla perdita della speranza che abbruttisce la vita delle donne e degli uomini del nostro tempo».

Non possiamo non riconoscere nelle parole di papa Francesco l’assoluta consapevolezza delle difficoltà e delle chiusure che turbano oggi – e non solo oggi – i rapporti tra cattolici e ortodossi, ma anche i rapporti tra le Chiese ortodosse; nello stesso tempo, anche per noi cattolici vale l’invito a lasciarci liberare «dalle ipocrisie dell’esteriorità». Ovvero – in primo luogo – dall’indulgere colpevolmente a interpretazioni del cammino ecumenico che troppo lasciano in primo piano le questioni geopolitiche e gli scontri di potere, a volte perfino compiacendosi nel descriverne le minuzie e le pieghe più recondite, o «adattando» ad una tale visione la ricostruzione dei fatti e le dietrologie. Questo non è un servizio alla causa dell’unità. Quello che è necessario – per essere convintamente cum Petro nell’implorare la piena unità dei credenti in Cristo – è la stessa concretissima speranza che papa Francesco ci testimonia: pienamente consapevole delle difficoltà esistenti, ma incrollabilmente certa che lo Spirito Santo non ha smesso di operare la liberazione dal duplice peccato dell’idealismo astratto e dell’apparente concretezza che diviene cinismo e autocompiacimento.

 

 

 

Francesco Braschi

Sacerdote, dottore in Teologia e Scienze Patristiche, dottore della Biblioteca Ambrosiana di Milano e direttore della Classe di Slavistica dell’Accademia Ambrosiana. È consultore della Congregazione del Rito ambrosiano e docente a contratto di Teologia all’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano.

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