13 Febbraio 2017

Florenskij e l’epoca della post-verità

Paolo Polesana

Nell’epoca dell’informazione totale la verità si allontana, diventa irraggiungibile. Ma raffinare le tecniche informatiche non aiuta. Padre Florenskij suggerisce un altro modo per sanare la ragione malata.

La parola dell’anno scelta dalla Oxford University press per il 2016 è stata «post-truth», post-verità, «termine che si riferisce o denota circostanze in cui i fatti obiettivi sono meno influenti nel plasmare l’opinione pubblica rispetto a emozioni o convincimenti personali». Come spiegano gli accademici inglesi, la parola avrebbe assunto una pregnanza tale da divenire un eponimo della nostra epoca: un fenomeno globale, che regola la comunicazione politica in stati come Inghilterra, Stati Uniti, Polonia, Turchia, Australia e Russia, per citarne solo alcuni.
Il termine, che è divenuto la parola chiave per descrivere la febbre emotiva che ha coinvolto il mondo anglosassone nel caso Brexit e nell’infuocata campagna elettorale statunitense, era già stato usato nell’ambito del dibattito climatico, per poi essere esteso a descrivere eventi di politica interna ed internazionale.

Nell’era della post-verità ci si scopre più litigiosi e divisi in schieramenti ideologici, fenomeno descritto come «polarizzazione dell’opinione pubblica». Di ciò ha parlato persino il presidente Obama in un’intervista concessa a giovani youtubers dopo l’ultimo discorso sullo stato dell’Unione: «Quando affrontiamo argomenti politici, dato che i media sono ora molto divisi, non si riesce a condividere una base comune di fatti e si è giunti a vivere in realtà completamente diverse in termini di visione del mondo».

Fra tutti i commentatori di questo fenomeno, mi ha particolarmente colpito Derek Muller, un brillante divulgatore scientifico che in modo ardito ha chiamato la propria pagina youtube «Veritasium – un elemento di verità». In una lezione tenuta all’Istituto Reale di Tecnologia a Stoccolma, nel dicembre 2016, ha lamentato la sua disillusione nel vedere tramontate le proprie aspettative sulla rete globale: «Perché accade proprio ora, nel momento storico in cui è più facile avere accesso ai fatti e all’informazione, che i fatti abbiano il valore più scarso in assoluto? Perché notizie false si diffondo così efficacemente, perché siamo più polarizzati ora di quanto non lo fossimo prima?».

Muller prosegue analizzando uno studio di come le idee si diffondono nei social media secondo un modello evolutivo, quasi fossero ceppi virali che aumentano nel tempo la propria carica. Questi ceppi ideologici crescerebbero in coppie di segno opposto, alimentando con la propria virulenza quella della fazione rivale. In questo allarmante processo evolutivo, i social agirebbero come catalizzatori del processo di estremizzazione, favorendo i contributi maggiormente faziosi, piuttosto che i più affidabili.

Questo stato di cose chiede una soluzione, una via di uscita: come permettere a grandi masse di utenti di internet non abituati al lavoro di ricerca sulle fonti, ad evitare l’esposizione a questo pericoloso contagio emotivo? Come uscire dal fazioso mondo di menzogne che abbiamo generato? Come finalmente entrare in una società nuovamente centrata sulla ricerca della verità come criterio di giustizia?
Il suggerimento più significativo del giovane divulgatore sarebbe di intervenire nel sistema dei social con nuovi criteri di promozione delle notizie: essi non dovrebbero conformarsi a principi unicamente emotivi, ma seguire un principio di verità. Un computer, proprio come fa un motore di ricerca, potrebbe tracciare le referenze delle notizie e assegnare ad esse punteggi di affidabilità, piuttosto che di popolarità: «È una vera battaglia, ma credo sia meglio cercare “segnali di verità”, piuttosto che i segnali di ciò che più ci stuzzica».

Intendiamoci, tutti vorremmo che si realizzasse il sogno di una condivisione delle notizie che estrometta i falsi, e sottoscriverei immediatamente il suggerimento di cambiare in meglio la circolazione delle notizie sui social network. Ma la proposta di chiamare verità il risultato di un algoritmo di ricerca ha un che di scioccante: sembra di vederla ridotta a un distillato di informazioni, a una purificazione dai fake, a un concetto negativo, insomma.
Quando cerchiamo una notizia, cerchiamo un prodotto affidabile, non vi è dubbio. Ma quando si tratta di verità, non cerchiamo piuttosto qualcosa che sia soprattutto significativo? E la verità di una notizia non è forse associata alla sua capacità di illuminare gli occhi, di restituirci alla realtà della quale facciamo parte nonostante le nostre distrazioni?

Nel periodo sovietico veniva stampata clandestinamente la «Cronaca della Chiesa cattolica Lituana», una rivista che spesso si limitava a citare i puri fatti che accadevano nelle parrocchie. Il primo numero, stampato nel marzo 1972, si concludeva con la breve notizia della multa di 50 rubli comminata al reverendo Petras Lygnugaris per aver visitato e assistito un paziente nell’ospedale di Akmenė. Qui di vero non c’è solo il fatto riportato, ma la capacità di queste semplici parole di superare quella impenetrabile barriera, costruita dal regime con la paura, che separava la coscienza personale dalla realtà dei semplici fatti che tutti potevano osservare attorno a sé.

Paura, odio, astio: questi sentimenti ottundono tuttora la nostra lucidità. Sembra addirittura che abbiamo tutti sviluppato una sorta di dipendenza da essi, il che ci rende assetati delle stesse menzogne che ci avvelenano. Individuare la cura in una correzione degli algoritmi di ricerca nei social network pare un approccio piuttosto sintomatico: forse il paziente va curato da dentro, liberandolo dalle sue ansie con una pace autentica. Si è insomma più bisognosi di qualcuno che ci restituisca la fiducia e la passione per questa nostra realtà. La verità, persino di una notizia, è una forza che va accolta con la disposizione di chi vuole diventare meno istintivo e più umano.

Ragionare sull’affidabilità delle notizie può insomma farci desiderare non solo tecniche informatiche più raffinate, ma più profondamente l’incontro liberante con la forza rigeneratrice di una umanità nuova. Il cristianesimo trovò nell’incontro con il Dio fatto uomo l’occasione più grande di umanizzazione della nostra natura ferita dal male. Per questo la fede, con una concisione davvero ardita, dice che la verità tutta intera è Cristo, l’uomo che fece risplendere sul mondo la luce della ragione. Come disse padre Florenskij: «La ragione cessa di essere malaticcia quando incontra la Verità: allora diviene intelletto. Ciò è possibile quando diventa ragione amante».

Paolo Polesana

Dopo la laurea all’università statale di Milano, ha conseguito il dottorato in fisica a Como e ha lavorato nei laboratori laser dell’università di Vilnius (Lituania). Ora è sacerdote diocesano a Bergamo. Da diversi anni collabora con l’Associazione Russia Cristiana

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