30 Novembre 2016

Testimoni silenziosi: Charles de Foucauld e i prigionieri del GULag

Marta Dell'Asta

Il 1° dicembre 1916 veniva ucciso Charles de Foucauld. La sua testimonianza muta e inerme ricorda la testimonianza di alcuni credenti nel Gulag. Anche loro immersi in un mondo ostile che non lasciava spazio alla parola, ma riconosceva la misericordia.

Nell’Europa angosciata dal recente ricordo di terribili attentati islamici, e affannata davanti all’imponente immigrazione, in una situazione psicologicamente critica nella quale sembra che «non si debba» usare fiducia né misericordia, cadono come un segno provvidenziale due anniversari molto significativi, che sembrano offrire una risposta alla paura che ci sovrasta: il primo è il centenario della morte di Charles de Foucauld, ucciso in Algeria dagli arabi nel 1916; il secondo è il ventesimo anniversario del martirio dei sette monaci trappisti di Tibhirine, pure in Algeria.
Ricordiamo l’episodio dei trappisti di Tibhirine, nel 1996: il rapimento e la decapitazione di sette monaci francesi che da anni vivevano la loro testimonianza silenziosa tra i musulmani sui monti dell’Atlante. La loro uccisione, attribuita al cosiddetto Gruppo Islamico Armato, è avvenuta durante la guerra civile seguita al colpo di Stato militare del 1992.
Il fatto che questi miti uomini di preghiera, che non facevano nessun «proselitismo», siano stati massacrati dagli islamici sembra confermare in pieno i nostri timori, ma paradossalmente proprio la loro esperienza di stima e fiducia per il «diverso», di amicizia sino al sacrificio della vita, oggi ci serve molto.
Ma il grande precursore della testimonianza muta dei monaci cristiani nelle terre dell’Islam era stato Charles de Foucauld, monaco eremita francese, stabilitosi in Algeria nel 1901 e qui ucciso dai predoni. Il suo sacrificio è molto simile a quello dei sette trappisti.
Charles de Foucauld, era nobile, visconte di Pontbriand, ricco ereditiere, militare insofferente della disciplina, epicureo, donnaiolo, intelligente ma troppo pigro per impegnarsi in qualsiasi cosa; era riuscito a superare la palude esistenziale in cui era caduto grazie alla scoperta del deserto africano, con la sua misteriosa bellezza che rimandava a un «oltre» che non sapeva decifrare. Lui, materialista e laico inveterato, aveva osservato per la prima volta la religiosità umana – che nell’Europa cristiana non gli era parsa degna d’attenzione – proprio nella forma musulmana; allora aveva capito che quegli uomini, con la loro preghiera a orari fissi, vivevano le proprie giornate alla presenza di Dio. Da qui era partito un lungo, difficile cammino spirituale che dal Corano lo aveva portato alla Bibbia e al cristianesimo.
Anche se aveva presto realizzato che la spiritualità del Corano non gli bastava, era rimasto in lui quel moto iniziale di interesse, ammirazione e stima per gli uomini islamici delle tribù tuareg, e per questo, una volta diventato monaco, aveva scelto di fondare il proprio eremo tra loro, pur nella certezza che mai e poi mai avrebbe ottenuto di convertirli a Cristo. La sua doveva essere una testimonianza muta, ma comunque una testimonianza d’amore:

«Il mio apostolato deve diventare il servizio della bontà, in modo che guardandomi, uno si possa dire: “Se quest’uomo è così buono, anche la sua religione dev’essere buona”… Vorrei diventare così buono che dicano: “Se il servo è così, come dev’essere il padrone?”».

Nel 1901 si era stabilito in Algeria, nel deserto del Sahara ai confini con il Marocco, dove aveva iniziato una vita conforme allo «stile di Nazareth», quello del Cristo privato e nascosto; una vita basata sulla preghiera, il silenzio, il lavoro manuale e l’assistenza ai poveri. La sua vocazione personale, diceva de Foucauld, era nata nell’incontro sconvolgente con la persona reale di Cristo, accaduto durante il suo primo viaggio in Palestina, e particolarmente col Cristo di Nazareth.

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Marta Dell'Asta

Marta Carletti Dell’Asta, è ricercatrice presso la Fondazione Russia Cristiana, dove si è specializzata sulle tematiche del dissenso e della politica religiosa dello Stato sovietico. Pubblicista dal 1985, è direttore responsabile della rivista «La Nuova Europa».

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