5 Maggio 2020

Il virus, gli ultras e una scelta per la vita

Giovanna Parravicini

Ripartire ma come? Magari recuperando la memoria delle proprie radici. In Italia come in Russia.

«Ciascuno nella vita può e deve scegliere: se vuol diventare migliore, o avere una vita migliore. Purtroppo, molto spesso sono due cose incompatibili… Credetemi, la cosa più importante è vivere in modo tale che né i vostri figli, né i vostri nipoti, né soprattutto voi stessi dobbiate mai vergognarvi di come avete trascorso la vita». In questi termini, nel 2013 l’anziana dissidente Ljudmila Alekseeva formulava il suo augurio ai giovani vincitori del concorso «L’uomo nella storia. La Russia e il XX secolo», un’iniziativa promossa annualmente da Memorial, a partire dal 1999, nelle scuole superiori di tutto il paese.

In questi giorni si è svolta «virtualmente» la premiazione dei 40 vincitori della 21° edizione del concorso, a cui hanno partecipato da tutta la Federazione russa oltre 1300 studenti tra i 14 e i 18 anni: giovani ricercatori impegnati a riportare alla luce, sotto la guida dei propri insegnanti, pagine di storia tratte dalla vita della loro famiglia, del loro insediamento, della loro regione, a dar voce – attraverso la loro ricerca – a nomi, storie e destini personali caduti in oblio, «piccole storie» che si intrecciano formando la «grande storia» del paese.

Alla luce della situazione creatasi in questi ultimi mesi, e in particolare della «fase 2», che stiamo affrontando ora, in Italia e in tutto il mondo, il senso di questa iniziativa mi sembra un esempio coraggioso, non formale di «ripartenza». Coraggioso perché non va in cerca di sicurezze o di illusioni, ma punta dritto su un problema che sta alla radice di molti mali dell’umanità contemporanea, di molte scelte che, direttamente o indirettamente, ci hanno condotto fin qui:

il problema dello smarrimento della memoria, della propria storia, identità, e quindi della propria dignità e del significato della propria vita. È ciò che ha condotto alla mercificazione dell’essere umano, al cinico calcolo della produttività, e quindi del diritto o meno di esistere di singole vite ed interi gruppi sociali.

Non saranno certo solo delle regole – pur sacrosante – da rispettare (guanti, mascherine, distanziamento sociale ecc.), a consentirci di «ripartire» realmente, se non si farà tesoro dell’esperienza di questi mesi, tanto più preziosa quanto più drammatica, se si penserà di poter esimersi dalla scelta radicale proposta dalla Alekseeva ai giovani russi: che cosa metti al primo posto nella vita? La tua dignità, la tua coscienza, la tua responsabilità – costi quel che costi?

Non erano state domande oziose per lei, nella sua vita, davanti ai figli piccoli, quando in pieno regime sovietico le avevano proposto di firmare la prima lettera aperta. «Ci pensai tutta la notte – avrebbe ricordato in seguito, – ma alla fine mi dissi: i miei figli non hanno solo lo stomaco, hanno anche un’anima, e non conta solo che siano vestiti e nutriti, ma che possano vedere che la loro madre vive secondo coscienza. E allora devo firmare». Nonostante tutte le difficoltà, né lei né i suoi figli avrebbero mai rimpianto questa scelta.

Il virus, gli ultras e una scelta per la vita

Nei giorni dell’emergenza Covid-19 abbiamo già cominciato, quasi istintivamente, a «rattoppare» la storia, le nostre memorie lacunose e piene di buchi, a ritornare alle radici e alle ragioni di una civiltà che continua a vivere di un’eredità cristiana di cui però ha smarrito la coscienza – penso agli ultras dell’Atalanta che a Bergamo non si sono accontentati di contribuire indefessamente alla costruzione del nuovo ospedale, ma hanno pensato ad allestire l’obitorio con una grande croce di legno, disegnando a mano perfino la scritta INRI e «benedicendo» questo ambiente attraverso la recita del «Padre nostro». Un gesto, mi sembra, che supera la pura dimensione di un servizio civico, sociale, per testimoniare una posizione personale, di religioso stupore, che avverte tutta l’essenzialità di un atto, apparentemente superfluo, di sollecitudine, di tenerezza – in questo caso – per quanti hanno attraversato nella solitudine il confine della vita.

Questa stessa dimensione di religioso stupore di fronte al mistero umano ritorna nei brevi racconti che i quaranta vincitori del concorso 2020 hanno fatto dei temi a cui hanno dedicato i propri lavori. «Dalla logica delle cifre è importante passare alla logica del destino di ogni singola persona», sottolineano Margarita e Artem Galencov di Ekaterinburg, autori del documentario Diritto alla memoria, che hanno lavorato sulle vittime (oltre 20.000) del Grande Terrore negli Urali. E continuano:

«Abbiamo voluto lavorare come se ciascuna di queste persone fosse uno dei nostri familiari. E citare quanti più nomi possibile, per avere la possibilità di restituire la loro memoria. Questa memoria è un loro diritto».

Sono «“Storie non da ragazzi”, anche se a raccontarle sovente sono stati ragazzi», dice Elizaveta Išutina di Brjansk, che nella sua ricerca rievoca l’infanzia della nonna Tanja – costretta durante l’occupazione tedesca ad assistere alle torture cui viene sottoposto suo padre, per estorcergli notizie sui partigiani che si nascondevano nei boschi; a denunciare il padre era stata Šura, una sua compagna di scuola.

Oppure la tragica vicenda di Igor’ Nikolaevič, bisnonno di Aleksandr Mironenko di Novosibirsk, che nel ’37 si suicida con un colpo di rivoltella per evitare l’arresto, in modo tale che i suoi cari non potessero essere incriminati come «parenti di un nemico del popolo». «In realtà – osserva Aleksandr – la sorte dei figli non venne alleviata da questo gesto estremo, disperato, di amore del padre».

Storie crude, impietose, che sullo sfondo delle catastrofi del tempo (le persecuzioni religiose, la collettivizzazione, il Terrore, la guerra) testimoniano ancora una volta come in ogni contesto sia possibile restare uomini, scegliere per la vita – della propria famiglia, dei propri cari, o addirittura di sconosciuti; oppure calpestare tutto ciò che di più sacro esiste – l’amicizia, la parola data, gli stessi affetti, in nome di un’ideologia o di un calcolo.

Colpisce la consapevolezza con cui, rievocando queste complesse, dolorose vicende, i giovani autori evidenziano la responsabilità a cui nessuno può sottrarsi, perché ad ogni generazione si ripropone la scelta tra l’«essere migliori, o vivere meglio». Una scelta complessa, senza risposte scontate, «in cui non esistono solo bianchi e neri, ma tutta una gamma di sfumature della realtà», come osserva Evgenija Beljaeva, nella sua ricerca dedicata alla corrispondenza, nel 1917, tra un prete ortodosso e un falegname che col nuovo regime, riscattando tante ingiustizie subite in passato, si getta con entusiasmo nella rivoluzione. Ma una scelta sempre affidata nelle mani della singola persona, per quanto fragile, apparentemente impotente di fronte all’urto della realtà.

La stessa scelta delle donne che duemila anni fa non si lasciarono paralizzare dalla paura, come ci ha ricordato la notte di Pasqua papa Francesco: «Come noi, le donne avevano negli occhi il dramma della sofferenza, di una tragedia inattesa accaduta troppo in fretta. Avevano visto la morte e avevano la morte nel cuore… La memoria ferita, la speranza soffocata. Per loro era l’ora più buia, come per noi. Ma in questa situazione le donne non si lasciano paralizzare. Non cedono alle forze oscure del lamento e del rimpianto, non si rinchiudono nel pessimismo, non fuggono dalla realtà. Compiono qualcosa di semplice e straordinario: nelle loro case preparano i profumi per il corpo di Gesù. Non rinunciano all’amore: nel buio del cuore accendono la misericordia».

Giovanna Parravicini

Ricercatrice della Fondazione Russia Cristiana. Specialista di storia della Chiesa in Russia nel XX secolo e di storia dell’arte bizantina e russa. A Mosca ha collaborato per anni con la Nunziatura Apostolica; attualmente è Consigliere dell’Ordine di Malta e lavora presso il Centro Culturale Pokrovskie Vorota. Dal 2009 è Consultore del Pontificio Consiglio per la Cultura.

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