2 Marzo 2020

E se fosse una lezione salutare?

Giovanna Parravicini

Una lettera e una visita in Russia di un parroco della Siria. Un’occasione per chi non ha paura di scontrarsi con la realtà.

Sto seguendo la crisi innescata in Italia dal coronavirus a distanza, dalla Russia, dove al contrario siamo tutti sani e non si segnalano casi di contagio (o semplicemente non ne sappiamo niente? Non sarebbe la prima volta…). Attraverso i mass-media non è difficile cogliere il livello di panico creatosi in Italia, ma ho avuto anche modo di leggere riflessioni e messaggi molto belli, che hanno subito trovato ampia circolazione sui social, e che, al contrario, ci riportano a un livello di realtà a cui forse ci siamo disabituati.

Tra essi, anche una mail di padre Bahjat Karakach, parroco francescano di Damasco, intitolata «Lettera dal carcere» e rivolta per l’appunto agli italiani, con l’augurio di uscire al più presto dall’empasse creata dal virus, ma anche di poter comprendere un po’ meglio, nella nuova situazione, che cosa significhi per un popolo essere segregato da anni: «Qui in carcere non sono solo, condivido questa cattività con tutti i miei connazionali. Noi siriani, infatti, viviamo dal 2011 in una grande prigione, imposta dalle politiche occidentali, dai paesi che si arrogano il ruolo di difensori dei diritti civili, ma mettono sotto embargo una nazione intera».

«I grandi mass media – continua padre Bahjat – mettono in luce la storia di una bimba morta di freddo o una famiglia costretta a fuggire dai bombardamenti, ma non vi parlano dei milioni di siriani che soffrono il freddo per mancanza di gasolio, che non sempre possono avere un piatto caldo perché in cucina manca il gas. Non vi parlano degli studenti che non possono studiare dopo il tramonto per mancanza di corrente elettrica, non vi parlano degli anziani abbandonati perché i loro figli sono dovuti emigrare…

Non vi parlano del caro-vita dovuto al fatto che la lira siriana continua a precipitare, non vi parlano dei giovani soldati che combattono il terrorismo a temperature sotto zero e non sanno se ce la faranno, non vi parlano degli ammalati che non possono avere cure dignitose perché i terroristi “moderati” hanno distrutto la maggior parte degli ospedali e perché gli ospedali che funzionano non riescono a riparare i macchinari a causa dell’embargo… E sicuramente non vi parleranno dei bombardamenti israeliani che hanno ucciso un giovane universitario due giorni fa e neanche dei discorsi apertamente ostili di Erdogan, che ha deciso di introdurre nelle scuole elementari la nostalgia ottomana della riconquista delle terre limitrofe, tra cui la Siria».

Storie di drammatica incertezza quotidiana, di cui possiamo meglio farci un’idea sulla base dei piccoli-grandi problemi in cui molti italiani sono incappati in questi giorni, dalla paura per familiari «a rischio» al vedersi saltare i progetti e non poter più disporre liberamente del proprio futuro; dal riportare danni economici più o meno gravi al subire disservizi e disagi di ogni genere senza sapere per quanto ancora questa situazione di precarietà può durare. Questa, forse, può essere un’occasione per sentirci più vicini, più partecipi dei drammi del mondo, e più consapevoli della responsabilità che necessariamente dobbiamo assumerci nei confronti di tutti: sia perché una tragedia remota – come quella di un virus dilagante nella lontana Cina – può diventare un problema di casa mia, sia perché quelli che potevano essere solo numeri e statistiche si trasformano in volti, situazioni, esperienze concrete e quotidiane anche per noi.

Padre Bahjat non si ferma qui: «Ma i grandi mezzi di informazione non vi parlaranno neanche della gioia degli aleppini da quando l’esercito nazionale è riuscito a liberare i sobborghi ovest di Aleppo, dai quali piovevano i colpi di mortaio sui civili. Non vi parleranno mai della gioia di tutti i siriani per la riapertura dell’autostrada Damasco-Aleppo e la rimessa in funzione dell’aereoporto internazionale di Aleppo, che ha dato speranza in una possibile ripresa economica… Non vi parleranno dell’annuncio della riparazione della via ferroviaria tra la capitale siriana (Damasco) e la capitale industriale (Aleppo) e della possibilità di viaggiare in treno dopo nove anni di guerra».

La vita vive anche tra le macerie, la speranza si fa strada in ogni situazione perché così è fatto il cuore umano. Forse proprio per questo i francescani di Damasco stanno lavorando non solo a ricostruire case, chiese, ospedali, ma a rimettere in piedi scuole e strutture educative che possano riaprire un dialogo e una familiarità che fino a prima della guerra erano vissuto quotidiano, e adesso invece hanno lasciato il posto a individualismo, paura e sospetto.

E in questo progetto hanno coinvolto anche noi del Centro culturale «Biblioteca dello spirito» di Mosca. A fine marzo – coronavirus permettendo – alcuni di loro verranno da Damasco a Mosca per inaugurare l’edizione russa della mostra «Francesco e il Sultano», esposta in una delle università della capitale, e per una serie di scambi e incontri pubblici che coinvolgeranno diverse istituzioni culturali e comunità religiose. Perché il vero carcere – è ancora padre Bahjat nella sua lettera – consiste nel fatto che «le nostre notizie, quelle vere, sono scarsamente diffuse». Di qui l’importanza di un’amicizia che trovi creativamente i modi di saltare – nel rispetto dei cordoni sanitari – le barriere dell’indifferenza:

«Qualche volta qualcuno viene a trovarci, ci fa sentire parte del mondo e ci dà la speranza di poter tornare ad essere una nazione “normale”, non tagliata fuori mondo».

È provvidenziale l’invito che la Chiesa ci fa in questi giorni di inizio Quaresima, segnati per molti da un «digiuno eucaristico» che costituisce anch’esso un richiamo all’essenziale. Un banale virus può inceppare i meccanismi mondiali e gettarci nel panico di fronte alla nostra impotenza. Come ha detto papa Francesco, nell’omelia del Mercoledi delle ceneri:

«La Quaresima non è il tempo per riversare sulla gente inutili moralismi, ma per riconoscere che le nostre misere ceneri sono amate da Dio. È tempo di grazia, per accogliere lo sguardo d’amore di Dio su di noi e, così guardati, cambiare vita. Siamo al mondo per camminare dalla cenere alla vita. Allora, non polverizziamo la speranza, non inceneriamo il sogno che Dio ha su di noi. Non cediamo alla rassegnazione. E tu dici: “Come posso aver fiducia? Il mondo va male, la paura dilaga, c’è tanta cattiveria e la società si sta scristianizzando…”. Ma non credi che Dio può trasformare la nostra polvere in gloria?».

Giovanna Parravicini

Ricercatrice della Fondazione Russia Cristiana. Specialista di storia della Chiesa in Russia nel XX secolo e di storia dell’arte bizantina e russa. A Mosca ha collaborato per anni con la Nunziatura Apostolica; attualmente è Consigliere dell’Ordine di Malta e lavora presso il Centro Culturale Pokrovskie Vorota. Dal 2009 è Consultore del Pontificio Consiglio per la Cultura.

LEGGI TUTTI GLI ARTICOLI
Tags:

Abbonati per accedere a tutti i contenuti del sito.

ABBONATI