26 Settembre 2018
Irlanda, incontri imprevisti nell’incontro con il Papa
Cattolici e ortodossi russi hanno partecipato assieme al World meeting of families di Dublino. Un’occasione imprevista per superare la tristezza legata agli scandali e scoprire che si può chiedere perdono e far tesoro «della libertà presente».�
Parlando di famiglia, si rischia molto spesso di parlare di problemi, dalle violenze e sofferenze più gravi sino alla fatica del vivere insieme implicata dalla quotidianità, senza scorgere la bellezza e la fecondità umana che la famiglia rappresenta. Questo non vale solo per la società occidentale, ma anche per la Russia. Così, proprio dal desiderio di vedere e testimoniare questa bellezza – nell’ambito del lavoro comune che già da due anni, dopo l’incontro di Cuba tra papa Francesco e il patriarca Kirill, le Chiese cattolica e ortodossa stanno svolgendo – è nata la decisione di vivere insieme tra alcuni ortodossi e cattolici russi l’esperienza della visita apostolica del Papa in Irlanda in occasione dell’Incontro mondiale delle famiglie.
Una decisione non scontata, perché molto spesso in Russia la vita delle strutture cattoliche e ortodosse corre su binari separati, che non si incontrano mai; così, se è normale che vicini di casa, colleghi di lavoro, genitori di ragazzi che vanno a scuola insieme si conoscano e si frequentino, tra cattolici e ortodossi «impegnati» capita di scorgere una certa diffidenza, dettata dalla non conoscenza reciproca e da pregiudizi abbastanza radicati. Per Dublino, grazie al sostegno dell’Associazione «Aiuto alla Chiesa che soffre», sono partite insieme la famiglia cattolica Daršt (Veronika ed Eduard, di Kaluga, con i loro sei figli), e la famiglia Kanev (Žanna e Sergej, con due dei loro figli); con loro padre Aleksej Uminskij, un sacerdote ortodosso accompagnato dalla moglie; il parroco cattolico di Orël Zbigniew Khrul, e monsignor Joseph Werth, che nella Conferenza episcopale cattolica russa presiede la Commissione per la famiglia.
Nell’ambito dei lavori del Meeting dublinese, queste persone sono state invitate a tenere un incontro sul tema: «Chiesa come famiglia delle famiglie. L’esperienza della famiglia cristiana in Russia». Incredibile come persone che fino a pochi giorni prima non si conoscevano abbiano potuto dare una testimonianza tanto cordiale e unitaria, nella differenza delle loro storie: Eduard e Veronika avevano entrambi il desiderio di consacrarsi a Dio, e hanno intuito l’uguale radicalità di donazione nella prospettiva di vita matrimoniale dischiusasi d’improvviso davanti a loro. Sei figli da mantenere sono un problema ovunque, ma questo è ancora più vero per la Russia: eppure – hanno sottolineato ancora Eduard e Veronika – il vero problema per la famiglia non sono i soldi, ma la mancanza di speranza e di fede, e quindi la più grande ricchezza è la «certezza» di Cristo presente fra noi. Padre Zbigniew ha parlato dell’esperienza del sacrificio e del perdono tra i coniugi come via alla gioia e all’amore, sull’esempio del cammino percorso da Cristo e tracciato alla Chiesa. E ha sottolineato la ricchezza costituita dalle famiglie miste, cattolico-ortodosse, che si trovano a vivere la ferita della divisione ma anche il mistero di un’unità profonda celata nelle pieghe della quotidianità della vita e delle sue scelte. I Kanev hanno dato una testimonianza creativa (il padre è regista, alcuni figli musicisti) della famiglia come «orchestra di vita», in cui ognuno è chiamato a dare il proprio contributo secondo un timbro originale e inconfondibile. Infine, padre Aleksej Uminskij ha richiamato al fatto che la famiglia oggi è «senza rete», non può più avvalersi del supporto delle strutture statali o delle convenzioni sociali che per secoli l’hanno salvaguardata formalmente come istituzione. Oggi la famiglia ha dalla sua parte solo le ragioni del suo senso umano e cristiano, ha unicamente se stessa e la sua originaria, disarmata bellezza come arma da far valere contro la crisi che la travaglia a livello mondiale. La famiglia può dunque rinascere solo da spazi reali di incontro e condivisione – proprio come quelli che padre Aleksij sta creando con i suoi parrocchiani a Mosca.
Fra le tante possibilità di incontro createsi nel contesto del World meeting of families, nei padiglioni della Royal Dublin Society, c’è stata una mostra suggestivamente intitolata «L’amato del mio cuore» (The Love of my Heart), curata dalla locale comunità di Comunione e Liberazione sull’esperienza della famiglia alla luce della Amoris Laetitia e del carisma di don Giussani. Roberto Sarracco, laureato in russo alla Cattolica di Milano ma residente da vari anni in Irlanda, è stato il «ponte» linguistico tra il nostro gruppo di russi e tanti altri partecipanti all’evento, oltre a farci da guida alla scoperta dei monumenti della storia e della tradizione cristiana irlandese.
Ma un incontro ancora più imprevisto è stato quello con il parroco della comunità ortodossa russa locale, padre Michail Nasonov, originario di Sebastopoli (Crimea), sacerdote dal 2002 e in missione a Dublino dal 2011. Guidandoci a sua volta a visitare alcuni luoghi sacri irlandesi, padre Michail mi ha stupito per la sua profonda conoscenza della storia della Chiesa cattolica irlandese – una Chiesa testimone e martire per molti secoli, come ci ha analiticamente documentato lungo il tragitto – ma che dopo aver acquisito posizioni di forza ha sovente ceduto alla tentazione di un formalismo che non l’ha salvata da terribili cadute e abusi. Mi ha colpito la differenza tra il tono del suo racconto e il clima di accuse e rivendicazioni che sui mass media irlandesi ha preceduto l’arrivo di Papa Francesco, il 25-26 agosto: ripercorrere le pagine luminose e drammatiche del passato, così come parlare dei mali del passato più recente e della diffusa, pesante diffidenza con cui si scontra oggi la Chiesa nella società, per padre Michail era evidentemente tutt’uno con l’interrogarsi sulla propria Chiesa, come del resto ha concluso esplicitamente: «Questa storia rappresenta un giudizio per tutti noi, su come facciamo uso dei tesori della nostra tradizione e della libertà che abbiamo nel presente».
Il desiderio di padre Michail di imparare dal contesto ecclesiale in cui è immerso mi è balzato davanti agli occhi anche quando ho visitato la sua parrocchia, l’ex chiesa anglicana dei Santi Pietro e Paolo che ora ospita una giovane e fiorente comunità ortodossa. Sull’iconostasi, ad esempio, oltre alle icone di Cristo e della Vergine e alle immagini festive, compare un’intera teoria di santi irlandesi del primo millennio, che si rivolgono a Cristo nella composizione della «supplica», la Deesis. Una chiesa senza complessi nazionalisti, insomma, una comunità che senza cessare di essere ortodossa vuole essere profondamente immanente alla terra in cui vive e svolge la sua missione.
Un ultimo fatto: sabato 25 agosto lo stadio di Dublino si è riempito di persone venute a incontrare il Papa, quasi in contrasto con il clamore di accuse e di espressioni di rabbia che avevamo visto levarsi nei giorni precedenti. In questa gigantesca festa c’era solo un’evidente «fetta» di spazio vuoto, un intero settore deserto perché – come avevamo saputo – qualcuno aveva bruciato in segno di protesta ben 500 biglietti di ingresso: per il resto, abbiamo assistito allo spettacolo di gente normale, famiglie, giovani, bambini che sono rimasti per ore nello stadio, mentre sul palco si succedevano canti, balli e testimonianze, fino all’arrivo di Francesco. Quest’ultimo momento è stato davvero emozionante e di profonda unità. La sera stessa un’amica russa ortodossa mi ha detto: «Seduta nello stadio, mi sono chiesta più volte che cosa ci facevo lì io, ortodossa. Ma appena nello stadio è entrato il Papa i dubbi sono svaniti, ho capito perché ero lì».
In quella breve ora di presenza, è come se il Papa abbia restituito un volto al popolo irlandese, ma anche a ciascuno di noi, uno per uno, superando le differenze nazionali e culturali ma anche confessionali: ripetendo i gesti di amore di Cristo davanti ai poveri, alle vittime degli abusi, alle famiglie ha dato una testimonianza oggettivamente attraente, invitando tutti ad attingere al coraggio di san Patrizio, san Colombano e degli altri missionari irlandesi. Oltre a chiedere perdono, non ha temuto di dire che sempre i deboli, tra cui i «non nati», vanno difesi dalla «cultura dello scarto», e si è pronunciato energicamente, a pochi mesi dal referendum irlandese sull’aborto e davanti alle autorità che lo hanno sostenuto. L’origine di questo coraggio – il suo essere «segno del divino nella storia» – è la stessa che permette alla Chiesa, oggi come in passato, di chiedere perdono e di riformarsi continuamente, come nessun altro sa fare. È questa stessa origine che mi ha permesso di presentare Roberto e la sua comunità a padre Michail, che lamenta che i cattolici irlandesi oggi sono tutti un po’ «impauriti», un po’ «rassegnati, depressi», e di assicurargli che forse anche passando attraverso questa fragile, imprevista amicizia l’«Amato del mio cuore» che gli abbiamo illustrato alla mostra durante il World meeting non sparirà mai dall’Irlanda né dai nostri cuori, come abbiamo visto con sorpresa e commozione in quei giorni.
Giovanna Parravicini
Ricercatrice della Fondazione Russia Cristiana. Specialista di storia della Chiesa in Russia nel XX secolo e di storia dell’arte bizantina e russa. A Mosca ha collaborato per anni con la Nunziatura Apostolica; attualmente è Consigliere dell’Ordine di Malta e lavora presso il Centro Culturale Pokrovskie Vorota. Dal 2009 è Consultore del Pontificio Consiglio per la Cultura.
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