4 Gennaio 2017

Cristo o la verità? Alle origini del Credo di Dostoevskij

Antoine Lambrechts

La famosa affermazione di Dostoevskij su Cristo e la verità, oggetto di infinite interpretazioni, attraverso san Dimitrij di Rostov affonda le sue radici in Ambrogio e Agostino. Un pensiero fecondo che arricchisce Est e Ovest.

In questa relazione* vorremmo riesaminare il celebre Credo di Dostoevskij, «meglio restare con Cristo che con la verità», collocandolo in un contesto culturale cristiano, monastico e patristico, più ampio. Riteniamo infatti che esso sia stato ispirato da un brano della Vita di una monaca fiamminga del XIII secolo (1182-1246), il cui autore ha attinto a sua volta alle esegesi di sant’Ambrogio e di sant’Agostino.
Tutti i lettori attenti del romanzo I demoni ricorderanno la domanda che Ivan Šatov pone a Nikolaj Stavrogin durante la loro conversazione notturna:

«Ma non mi dicevate che se vi avessero matematicamente dimostrato che la verità è all’infuori di Cristo, avreste preferito restare col Cristo piuttosto che con la verità? Lo avete detto? Lo avete detto?»[1]

A questa domanda sulle sue precedenti convinzioni religiose, Stavrogin preferisce non rispondere. Non gradisce che gli si ricordi il suo passato.
Nel 1854, cioè vent’anni prima di scrivere I demoni, mentre era deportato, Dostoevskij formulò la paradossale, analoga convinzione che, se fosse stato indispensabile scegliere fra Cristo e la verità, sarebbe stato meglio scegliere Cristo. A quel tempo lo scrittore aveva già vissuto un periodo di dure prove: l’arresto, la prigione, la condanna a morte, la messa in scena dell’esecuzione capitale e infine la condanna a cinque anni di lavori forzati in Siberia. Per Dostoevskij questo fu un periodo di serrata introspezione. Grazie alla lettura del Nuovo Testamento, l’unico libro permesso nel penitenziario, Dostoevskij riscoprì per sé la fede cristiana, una fede non più formale ma vissuta personalmente, una fede che non solo era passata attraverso i dubbi, ma nella quale la persona di Cristo rappresentava l’unico punto di riferimento e l’ultima speranza. Lo raccontò egli stesso nella famosa lettera a Natal’ja Fonvizina[2]:

«Non è perché voi siate religiosa, ma è perché l’ho sperimentato e patito io stesso che vi dico che in tali momenti si è così assetati di fede come può essere assetata l’“erba secca”, e la si trova proprio perché la verità si rende chiara nella disgrazia. Vi dico di me stesso che io sono figlio di questo secolo, ancora adesso figlio dell’ateismo e dei dubbi e che addirittura (questo lo so) rimarrò tale fino alla tomba. Che terribili tormenti mi è costata, e mi costa ancora, questa sete di credere che si fa tanto più forte nella mia anima quanti più argomenti contrari a essa trovo in me. E pur tuttavia, a volte Dio mi concede dei minuti in cui sono perfettamente tranquillo; in questi minuti io amo e mi accorgo di essere amato dagli altri e in momenti simili io ho formulato il simbolo della mia fede nel quale tutto per me è chiaro e sacrosanto. È un simbolo molto semplice, eccolo: credere che non ci sia niente di più bello, profondo, simpatico, ragionevole, virile e perfetto di Cristo e non solo che non ci sia, ma – mi dico con amore geloso – che non ci possa nemmeno essere. E ancor di più, se qualcuno mi dimostrasse che Cristo non è la verità e se anche realmente la verità fosse al di fuori di Cristo, allora io preferirei restare con Cristo che nemmeno con la verità»[3]

Certo, questo paradosso su Cristo e la verità è già stato interpretato nei modi più diversi, perciò ci limiteremo solo ad alcune osservazioni.
Chi sceglie Cristo, naturalmente, sceglie al tempo stesso anche Colui che è «la Via, la Verità e la Vita» (Gv 14, 6). La necessità di scegliere fra Cristo e la verità in questo caso non ha alcun senso, a meno che non si tratti di un’«altra» verità, diversa da quella che è Cristo stesso. La possibile «dimostrazione» che Cristo può essere fuori dalla verità e che realmente la verità si trova al di fuori di Cristo, resta solo una costruzione della ragione umana, per quanto ci appaia convincente. Non a caso, in seguito Šatov parlerà proprio di dimostrazione matematica, poiché la verità di Cristo è una verità di un altro ordine, non può essere dimostrata né matematicamente, né con l’aiuto di nessun altro argomento, poiché essa si scopre solo vivendo, soprattutto nelle prove e nella lotta interiore tra fede e incredulità. La verità di Cristo illumina le tenebre nel cuore della notte o, come scrive Dostoevskij nella lettera alla Fonvizina, «la verità si rende chiara nella disgrazia», la verità cioè si chiarisce nelle prove della vita. Cristo infatti non è solo la Verità, ma anche la Via che dobbiamo seguire e la Vita che ci è data. Scegliere Cristo e non una verità dimostrata, significa scegliere un incontro personale su questa via e non una dimostrazione logica, per quanto convincente. La verità non viene negata, ma ricollocata in modo diverso. È la persona che ci attira, non un argomento.

NOTE
*: Intervento al convegno «Fiducia. Dignità. Misericordia», Kiev 28 settembre – 1 ottobre 2016.
[1] F. Dostoevskij, I demoni, a cura di E. Bazzarelli, saggio introduttivo di Ju. Trifonov, Milano 1981, p. 285.
[2] N. Fonvizina, moglie del decabrista M. Fonvizin (1787-1854), seguì il marito in deportazione.
[3] Questa lettera fu scritta a Omsk tra la fine di gennaio e il 20 febbraio 1854. Si trova in: F. Dostoevskij, Polnoe sobranie sočinenij v 30 t. (Opera omnia in 30 voll.), Leningrado 1972-1990, vol. XXVIII, p. 176. Cit. in it. in: T. Kasatkina, Dostoevskij. Il sacro nel profano, Milano 2012, pp. 25-26.

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Antoine Lambrechts

Dopo gli studi di filologia germanica e slava ad Anversa e Lovanio, ha studiato teologia a Tessalonica, Lovanio e Roma, specializzandosi in Storia della Chiesa russa. Sacerdote e monaco benedettino del monastero di Chevetogne (Belgio), dove è stato coredattore della rivista «Irenikon» e priore, attualmente è bibliotecario e redattore del bollettino «Lettre de Chevetogne».

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