4 Maggio 2022

Lettere dalla Russia / 3 / Le macerie della nostra vita

Redazione

Cosa fare se non possiamo fare più nulla… Cosa fare davanti all’odio che cresce… Cosa resta della nostra grande cultura… la Russia risponde.

«Ho sempre pensato che la politica non fosse affar mio, che il mio voto non potesse cambiare le cose, fino a quando il corso degli eventi non è precipitato» racconta Zamira, una giovane di 26 anni, che vive a Mosca e lavora per una casa editrice di e-book. «Forse abbiamo lasciato correre troppo, troppe volte. Non mi sento direttamente colpevole per quello che sta succedendo in Ucraina, ma responsabile sì, e questa responsabilità è pesante». Una responsabilità che si legge tra le righe di molti messaggi dalla Russia, e che porta alla luce un interrogativo: cosa ci resta da fare se non possiamo fare più nulla?

Deve esserselo chiesto Ivan Velikanov, giovane direttore d’orchestra, quando il 25 febbraio poco prima di esibirsi al teatro dell’Opera di Nižnij Novgorod si è fatalmente pronunciato contro l’attacco russo in Ucraina, avvenuto il giorno prima. Velikanov aveva dichiarato che i musicisti sono a favore della pace e contro la guerra e, subito dopo, aveva chiesto all’orchestra di cercare lo spartito della Nona sinfonia di Beethoven (il celebre Inno alla gioia), e di suonarlo come simbolo di pace. «La guerra – spiegherà – è incompatibile con la vita e l’arte, e nessuno ha espresso questa idea meglio di Beethoven».

Un gesto improvviso costato però all’artista l’allontanamento dal teatro e dal festival.
È lo stesso Velikanov ad averne dato notizia sulla sua pagina facebook, dove, oltre a esprimere gratitudine verso chi si è mostrato solidale con la sua iniziativa, ha chiesto di sostenere il gruppo del teatro di Nižnij Novgorod, colpito da una raffica di accuse: «Sono immeritate, non è stata la direzione del teatro a sospendermi, la decisione è stata presa più in alto». Inoltre «il teatro non è responsabile delle mie azioni», l’artista ha infatti rimarcato a più riprese la responsabilità personale del suo gesto: «Per sicurezza non ho informato nessuno, né il management, né i musicisti. È stata puramente una mia iniziativa».

macerie vita

Un mazzo di fiori lasciato alla stazione kievskaja del metro di Mosca, con affreschi celebrativi dell’amicizia  russo-ucraina.

Stando al racconto del giovane direttore, nessun musicista si è rifiutato di suonare, e in sala in molti hanno applaudito la performance: «Mi sembrava che sia nel pubblico, sia nell’orchestra e sul palco, ci fossero persone con parenti, amici, conoscenti che stanno soffrendo per la guerra. L’idea era molto semplice: se le pistole sparano, le muse tacciono». Già la sera del 24 durante uno spettacolo, Velikanov aveva percepito un’atmosfera pesante in sala, uno scarto assordante fra l’allegria dell’aria mozartiana che l’orchestra suonava e i bombardamenti che tutti sapevano in corso in Ucraina. Anche questo l’ha spinto a prendere posizione.

Alle molte parole di sostegno rivolte a Velikanov, si sommano parecchie critiche. Gli viene rimproverato ad esempio di aver reso omaggio all’Occidente (l’Inno alla gioia infatti è anche l’inno d’Europa), e di aver utilizzato un teatro statale come piattaforma per una sorta di agitazione politica. Il fatto è, spiega il direttore, che «qui non si tratta affatto di politica: chiamare politica la guerra è essere cinici, perché qui la gente sta morendo».

E tuttavia, dopo l’allontanamento da Nižnij Novgorod e dal festival Zolotaja maska, Ivan Velikanov è stato accolto dal teatro Bol’šoj di Mosca dove l’11 marzo ha diretto la prima del Falstaff di Antonio Salieri.

Andarsene, l’ultima chance

«Cosa resta allora da fare, quando non si può fare più nulla?», deve essersi chiesto anche Anatolij Kanev, giovane insegnante di lingua italiana e francese presso l’Istituto per le relazioni internazionali MGIMO di Mosca, che si è dimesso dopo essere stato esortato ad astenersi da qualsiasi dichiarazione o discussione con gli studenti circa la guerra. Il suo punto di vista, come recita il richiamo della direttrice, avrebbe potuto essere scambiato per quello ufficiale.

Il giovane insegnante non poteva più accettare di lavorare in un’organizzazione che fa capo al Ministero russo degli affari esteri e dove la maggior parte dei colleghi insegna agli studenti la «versione ufficiale di quello che sta succedendo». E così si è licenziato: «Io e la mia famiglia siamo rimasti senza alcun reddito – scrive su facebook – Se qualcuno ha bisogno di un insegnante con due lauree e un diploma post-laurea dell’Accademia Russa delle Scienze, sono disposto a prendere in considerazione qualsiasi offerta, qualsiasi lavoro». Chiarisce anche il perché non ha lasciato l’università subito dopo l’inizio della guerra: «Sentivo quanto fosse importante discutere di tali argomenti con gli studenti quando me lo chiedevano, sperando che ciò che ci dicevamo li avrebbe aiutati a orientarsi nelle vicende odierne. Ebbene, dopo che mi è stato consigliato di “tacere”, per me non c’era altra via se non il licenziamento: si capisce che nessun dialogo è possibile, non starò zitto e non mentirò. È chiaro che non insegnerò più in Russia, non ho lasciato il MGIMO per scendere a compromessi da un’altra parte».

Se anche non dovesse trovare un impiego nella sua specialità, Kanev non avrebbe paura di imparare qualcosa di nuovo: «Ho già fatto molte cose nella mia vita: tutoraggio, riparazione di strumenti musicali, e ho insegnato in una scuola musicale a Petrozavodsk. Lì lo stipendio di un insegnante di musica era di 3.900 rubli al mese e c’era una coda di persone che volevano quel posto, perché ci sono molti musicisti disoccupati, era il 2006.
Sono nato in una famiglia povera a Pečora, non abbiamo mai vissuto bene, ci siamo sempre arrangiati, quindi non ho paura della povertà. E molti in Russia non temono le sanzioni economiche per lo stesso motivo. Ma c’è paura per i bambini, spaventa la prospettiva che alla fine possano finire in una scuola dove viene imposta un’ideologia aggressiva; questo, a dire il vero, è il motivo principale per cui io e mia moglie, insegnante anche lei, stiamo pensando di andarcene…».

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Alcuni foglietti appesi in città russe citano messaggi, stralci di chat, racconti di persone di Mariupol’ che testimoniano le atrocità della guerra. (Facebook)

Anche Max, giovane di San Pietroburgo, fondatore del canale YouTube Russian with Max, con più di 55mila iscritti di tutte le nazionalità, ha pensato di andarsene, e l’ha fatto alla volta della Serbia qualche settimana dopo lo scoppio della guerra. Max pubblica periodicamente su internet contenuti sotto forma di podcast e video con trascrizioni e spiegazioni lessicali per chi vuole imparare o perfezionare il russo tramite risorse online.

Nelle sue puntate, affronta questioni di politica, storia, attualità, cultura, e lo fa con un linguaggio semplice e comprensibile, mettendo a disposizione di tutti un punto di vista giovane, dinamico, e aperto sulla vita russa. Quando è scoppiata la guerra, Max non ci ha pensato due volte a prendere posizione, e a farlo pubblicamente tramite i suoi canali. E così, le impressioni sul conflitto in Ucraina, le dirette sulla situazione in Russia, i podcast sulla propaganda statale, sono diventati i nuovi materiali didattici del suo progetto, ascoltati e letti da migliaia di follower impegnati nello studio del russo.

Tra i materiali pubblicati c’è anche il racconto della sua fuga: «Ho capito che dalla Russia non avrei più potuto pubblicare i contenuti che volevo, ma non potevo scendere a compromessi accontentandomi di parlare di questioni “neutre”. Considero tutto questo una sorta di “chiamata”, mi piace tantissimo raccontare le storie che mi stanno a cuore, realizzare video per chi studia il russo, parlare del mio paese e della mia cultura…».

La cultura sanguina

Una cultura che purtroppo ha cominciato a insospettire, a creare imbarazzo, tanto all’estero quanto in Russia. A Mosca i versi di un classico come Nekrasov sono diventati il pretesto per il fermo della traduttrice Ljubov’ Summ scesa in piazza con un cartello che recitava:

«Queste sono le lacrime delle povere madri!
Non dimenticheranno i loro figli
morti nei campi insanguinati,
né il salice piangente alzerà
i suoi rami cadenti…».

Come spiega il verbale di polizia, ancorché siano stati scritti quasi 200 anni fa da un poeta democratico, si tratta di versi ostili, «finalizzati a coltivare un atteggiamento negativo nei confronti dell’operazione militare in corso delle forze armate della Federazione russa».

Svetlana Panič, traduttrice e filologa, in un messaggio accorato sostiene che

«dal 24 febbraio, le truppe russe, distruggendo l’Ucraina e i suoi civili, sparano metodicamente sulla cultura russa. È difficile dire cosa ne rimarrà, ma è ovvio: ciò che rimarrà dovrà essere risollevato dalle sue rovine, raccolto a pezzi, ripulito con una cura archeologica dalla polvere imperiale e ideologica.

Non potrà più vantare nessuna “grandezza”, nessun “orgoglio” coloniale, nessuna “autorità”, la sua storia può esistere solo come storia del mancato ascolto delle proprie voci ammonitrici e profetiche, e continuerà in chiunque troverà il coraggio di scrivere un lamento su Buča, su Irpin’, sull’Ucraina».

«Leggono Basho dopo il massacro di Nanchino? – si chiede sulla stessa scia Andrej Desnickij – Shakespeare dopo il massacro di Amritsar? Faulkner dopo il Vietnam? Di Goethe non chiedo nemmeno. Allora leggeranno anche Puškin. Ma già da subito – e nessuno ci impedirà di farlo – conviene pensare bene a come lo leggeremo ai bambini e agli adulti. A come parleremo della nostra cultura, storia, letteratura e lingua. Quali significati tireremo fuori e quali narrazioni costruiremo per prendere coscienza dell’atrocità, per inorridire e superare. E per tornare all’umanità. Come restituire Puškin alla piazza Puškin temporaneamente occupata. Questo è il compito più urgente per gli umanisti russi oggi».

Letture in Piazza Majakovskij, stagione 2022. Un ragazzo recita a memoria versi di ispirazione anarchica, che concludono: «Combatteremo fino a che non morrà l’ultimo soldato del presidente…».

E il frutto dell’odio

Tra i frutti marci di questa guerra, ce n’è uno che più di altri addolora, ed è il solco tracciato dall’odio che a volte crea una distanza abissale fra russi e ucraini, che mozza il fiato e sembra impedire ogni parola sensata. È quello che rileva l’appello su facebook «ai compagni-padri in ascolto» di Padre Zelinskij, parroco russo ortodosso a Brescia: «Coda per la confessione. Per due ore. Parrocchiani di vecchia data e nuovi, profughi, bambini… e fino a qui tutto bellissimo. Tutti però con un peccato in comune, un peccato pressante che mette in ombra gli altri: l’odio. Non dicono nemmeno per chi: è chiaro come stanno le cose. A parte la riserva di parole adatte a tutti i tempi, che cosa consigliate?».

«Non ho più parole – sembra fargli eco Ol’ga Gurevič.Scorro come i grani di un rosario i nomi e i volti di tutti i nostri fedeli ucraini, di tutti gli amici e i conoscenti di Charkiv, Kiev, Korosten’, L’vov, Ternopil’, Kam’janec’-Podil’s’kij, tutte le stazioni attraverso le quali ho viaggiato tante volte, tutte le case dove abbiamo condiviso gioia e ansia, tutte le canzoni che abbiamo cantato insieme. Poi scorro quelli di Mosca, di San Pietroburgo, che vengono picchiati o processati o spaventati.

Tra le macerie della mia vita questa preghiera è ciò che di essenziale rimane. L’unico sentimento e desiderio è che finisca, che siano vivi, tutte le altre paure e lacrime si dissolvono in questo».

Ma nel vortice degli eventi resta sul fondo anche qualcosa di essenziale. La brutalità della guerra ti sbatte davanti te stesso, il cammino che hai fatto e quello che cerchi veramente, risvegliando un nuovo sentimento di auto-coscienza. «Confessione – scrive Aleksandr’ Archangelskij. – Se nella nostra situazione si può parlare di una qualche utilità, gli ultimi giorni mi hanno passato ai raggi X. Ho imparato molto di più sul vero me stesso di quanto non abbia fatto negli ultimi 60 anni. Non è una conoscenza molto confortante, ma almeno senza alcun auto-inganno, e con una chiara comprensione di dove sono, cosa sono e come sono».

Allora, per alcuni russi, quando non è possibile fare più nulla si apre almeno la strada della compassione, un sincero desiderio di partecipare alla passione dell’altro provando a lasciare indietro l’indifferenza e la menzogna.

Commenta Zara Murtazalieva rivolgendosi ai russi: «I popoli del Caucaso hanno un’usanza. Che si tratti di dolore (un funerale) o di gioia (la nascita di un bambino o un matrimonio), tutti i vicini spalancano le porte delle loro case. Facciamo entrare il dolore degli altri nelle nostre case, nelle nostre mura, nei nostri cuori e viviamolo insieme. Fate entrare la guerra in casa vostra. Ricordatevi ciò che è successo, guardate le foto e i video. Raccogliete il vostro coraggio e immaginate gli ultimi secondi di coloro che sono stati uccisi, mutilati e feriti. Immaginate che vostra figlia o vostro padre vengano uccisi, che la vostra città, la vostra strada, la vostra memoria vengano bombardati. Se non potete fare nulla, allora assistete ai crimini commessi a vostro nome e parlatene con la vostra famiglia, i parenti, gli amici e i vicini. In modo che i vostri figli non scrivano su facebook fra 20 anni “non so”, “non credo”, “non può essere”».

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